Giustizia È Fatta!. Saša Robnik

Giustizia È Fatta! - Saša Robnik


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      Giustizia è fatta!

      Saša Robnik

      Traduzione di Monja Areniello

      Copyright © Saša Robnik, 2021.

      “Giustizia è fatta!”

      Autore Saša Robnik

      Copyright © 2021 Saša Robnik

      Tutti i diritti riservati

      Distribuito da TekTime Book Translations.

       www.traduzionelibri.it

      Traduzione di Monja Areniello

      Progetto di copertina © 2021 Saša Robnik

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      Tunnel K-14, Azra

      Pago il conto, indosso la giacca e lascio quel luogo di derelitti e disperati. Le loro voci indugiano dietro di me mentre cammino nella notte lungo il marciapiede bagnato. La luce al neon del pub si mescola con i miei passi sul cemento.

      La notte è immacolata come il sorriso di un neonato. La inspiro fino a quanto i miei polmoni riescono a sopportare. E’ rassicurante sapere che quell’aria oscura possa espellere i veleni che hanno permeato il mio corpo nel bar, eppure lo sapevo e lo so ancora: non c’è veleno più grande del rimpianto e del senso di colpa che mi perseguitano. Un bicchierino di rakija non è la soluzione, solo un ritardo dell’agonia che devasta il mio io interiore. Eppure, il liquore ti fa dimenticare qualsiasi cosa un momento se non sei solo, mentre se lo sei, non fa altro che intensificare il veleno ad ogni sorso.

      Quando apro la porta e accendo la luce, il corridoio mi accoglie con il suo vuoto e la sua lampadina spoglia la cui luce rende tutto inquietante. Appendo la giacca e mi tolgo le scarpe, esitando, sapendo che c’è qualcosa, in agguato: spesso in stanza da letto, a volte in cucina, raramente in bagno, ma soprattutto in soggiorno.

      Eccolo, nel suo cappotto verde, pantaloni bianchi e un berretto in testa, in piedi in un angolo, di fronte al muro. Sempre di fronte al muro, non ho mai visto la sua faccia. A volte vorrei ma non riesco proprio a farlo voltare e non ho il coraggio di toccarlo. La paura dell’ignoto è più forte della mia volontà.

      Il suo nome mi è noto, Dio ne è testimone che l’ho pregato cento volte di guardarmi negli occhi, ma non ci sono mai riuscito.

      Mi sistemo sul divano e accendo la televisione. Le immagini sullo schermo e la voce dell’annunciatrice svaniscono nella mia coscienza. La luce dello schermo irradia il soggiorno, dove mi siedo incapace di fare qualcosa mentre la mia memoria rimbalza da com’era a come avrebbe potuto essere. Un destino avverso è diventato la mia colpa. E la sua. La nostra.

      Da tempo ho smesso di notare l’odore intorno a lui, quell’odore aspro e pungente della polvere di carbone, tipico di ogni minatore, ora mi riempie le narici e mi riporta alla memoria i ricordi. Li rifiuto, sono indesiderati. Sullo schermo si alternano spot pubblicitari e la stanchezza mi travolge. Non vedo l’ora di addormentarmi; il sonno mi porta sollievo e oblio che li fa scomparire in un batter d’occhio, tra l’oscurità e il risveglio. E mentre le mie ciglia si chiudono e il sonno mi abbraccia, lo sento piangere. Singhiozzare e piangere. È così che mi saluta ogni notte.

      La sveglia suona e mi risveglia. Mi preparo lentamente e con calma per andare a lavorare. Non arrivo mai in ritardo. L’aroma del caffè e del sole che filtra dalle persiane leggermente aperte mi annunciano un nuovo giorno. Lui è scomparso dall’angolo, molto probabilmente è nel corridoio. Spengo i fornelli, prendo la tazza, torno sul divano e allungo il collo. Eccolo, che inizia a sussurrare contro il muro, veloce e indistinto. Accendo una sigaretta e alzo il volume. Dicono che sarà una bella giornata, senza neve.

      Con pochi tentativi, il motore si sforza di uscire dal gelido letargo. Con una piccola pressione sul pedale, ci riesce. Lo lascio in folle ed esco a grattare via il ghiaccio dal parabrezza. Mentre le mie dita si contraggono per il gelo, il mio sguardo va alla finestra del quarto piano e mi sembra di vedere la sua sagoma, illuminata dal sole invernale e sono sicuro che mi stia guardando, nascosto dietro la tenda grigia.

      Scendo dalla macchina e incontro i miei apprendisti, giovani ragazzi appena usciti dalla scuola. Bevono caffè e chiacchierano sull’anno nuovo. Sento che stanno programmando qualcosa con alcune ragazze e ridono felici e spensierati.

      Dopo aver salutato educatamente, mi riempiono una tazza di caffè con uno sguardo meravigliato sui loro volti. Annuisco con la testa e mando Goran in ufficio. Torna con una bottiglia di liquore e alcuni bicchieri, li riempie per tutti e brindiamo al nuovo anno.

      - Un altro? - Chiedo io. Sono tutti bravi ragazzi, scuotono la testa e iniziano a parlare di lavoro, quindi gli assegno i loro compiti. Ivica dovrebbe fare un controllo sulla VW Golf: il proprietario è impaziente perché deve guidare fino a Belgrado. La Peugeot, che è in fermento da ieri sera, è assegnata a Goran. Deve sostituire le pastiglie dei freni e i cavi del freno a mano. La Fiat la prenderò io, non appena Boris mi avrà riportato la testata del cilindro, dopo la rettifica. Lavorerà da solo, ma lo sto supervisionando. È un lavoro preciso, dovrebbe montare la cinghia di trasmissione e posizionarla correttamente in modo che non scivoli e rompa le valvole.

      Finalmente arriva Stojan. Non sono arrabbiato con lui per il ritardo, il ragazzo vive molto lontano dal laboratorio. Senza una parola iniziano a svolgere i loro compiti. Come ho detto, sono dei bravi ragazzi.

      Canzoni popolari della radio riempiono il laboratorio. Ai ragazzi piace ascoltare la musica mentre lavorano. Non ho niente da ridire su questo. A volte non sento il telefono in ufficio, ma non tutto può essere perfetto. Offro loro questa piccola gioia che accompagna la giovinezza e non ho il diritto di portargliela via.

      Così com’è stata portata via a me.

      - Buon giorno, capo! - Una voce sconosciuta riecheggia in tutto il laboratorio. Mi giro e lascio che Boris finisca il lavoro da solo, la mia supervisione non è più necessaria, può mettere da solo il coperchio della valvola.

      Saluto il nuovo arrivato e gli do una rapida occhiata. Uno zingaro molto giovane. Gli zingari sono buoni clienti, apprezzano il lavoro professionale e lasciano sempre una mancia. Dietro di lui vedo una vecchia Fiat che sbatte in modo irregolare in folle e mi chiedo come quella macchina possa ancora viaggiare per strada.

      L’auto mi guarda minacciosa con i suoi doppi fari, innescando una marea di ricordi che mi costringe ad entrare nei bar, tra gente e alcol, in cerca di una via di fuga. Il mio cuore batte più forte mentre mi avvicino ad essa. Non può essere, non può essere, urla ogni fibra del mio corpo. Come se il diavolo stesso avesse fatto rotolare questo veicolo nell’officina, si fosse goduto la scena e mi avesse avvertito che non esiste l’oblio.

      Le fasce laterali sono marce, la vernice è diventata opaca e la corrosione si fa strada nei cerchioni. Il paraurti anteriore e quello posteriore sono stati sostituiti. La carrozzeria irregolare e ammaccata racconta storie di mancanza di attenzione e manutenzione superficiale. Ho preso atto di tutto questo inconsciamente, gli anni da meccanico mi guidano sistematicamente e mi riportano indietro nei ricordi. Come da lontano, lo zingaro parla con voce supplichevole del motorino di avviamento, di come spinga per avviarsi, della tristezza e dell’ultima notte dell’anno. La sua voce si perde in un flusso di rabbia, ricordi e rimpianti.

      Apro la porta ed esamino l’interno. Gli stessi copri sedili sono lì, intatti nonostante tutti questi anni. Un grosso graffio sul cruscotto, una pallina bianca con punti neri sul pomello del cambio e un adesivo di Puffetta sotto la radio.

      L’adesivo che avevo messo io molto tempo prima.

      Nuvole scure iniziano a turbinare davanti ai miei occhi e il sangue mi ruggisce nelle orecchie. Faccio un respiro profondo e mi rivolgo allo zingaro mentre sta ancora parlando:

      - ... è dura, amico mio, non riesco ad avviarla, ti prego, non importa quanto costi ...

      - No - l’urlo esce spontaneo. Non voglio guardare né lui né la macchina, mi causa troppo dolore.

      Mi


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