Giustizia È Fatta!. Saša Robnik

Giustizia È Fatta! - Saša Robnik


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Le risate sguaiate, dall’interno del bar, m’impediscono di entrare, ma non voglio tornare a casa per ciò che mi sta aspettando lì.

      Tuttavia, torno subito a casa. Per un attimo penso ai ragazzi. Probabilmente si stanno vestendo e preparando per la festa. Spensierati e felici, lontani dall’oscurità che emana da Azra. Se ci fosse un centro di raccolta degli auguri di Capodanno, ne manderei uno intitolato ‘Urgente’: fate crollare il tunnel K-14 Azra per sempre con dentro sia vivi sia morti.

      Quando entro nell’appartamento e metto giù la spesa, mi preparo per farmi una doccia. In un istante, il bagno si riempie di vapore. Mi strofino energicamente; il fetore dell’olio meccanico è in ogni poro della mia pelle. Il fetore del duro lavoro. Come quello di mio padre.

      Lui è in piedi accanto alla lavatrice, dandomi le spalle. Attraverso il vapore non riesco a vedere cosa sta facendo con le sue mani e attraverso l’acqua non riesco a sentire se sta sussurrando. Sussurra sempre, non parla mai ad alta voce.

      In cucina mi verso un bicchierino per farmi compagnia mentre preparo la cena. La televisione illumina la stanza, dove non accendo mai le luci. Mi sento più a mio agio al buio e anche lui, credo. Si nasconde nell’ombra quindi non posso vederlo, anche quando cerca di farmi sapere che è lì.

      Mentre taglio la carne con un grosso coltello affilato e basta un momento di sbadataggine per farmi sanguinare il dito. Impreco e lo tengo sotto un getto di acqua fredda. Un filo di sangue è attaccato al coltello.

      Quella notte non c’era acqua per lavare via il sangue. La pozza di sangue era in cucina e nella pozza c’erano loro. Tutti loro. Scuoto la testa per dissipare quei pensieri, mi lego una benda attorno al dito, mi verso un altro bicchiere e riprendo a sistemare la carne. Ogni taglio mi ricorda le ferite che ho visto e che ho causato.

      Azra. Il male. Lui.

      Finisco il mio drink e ne verso un altro.

      Non sono mai stato nel tunnel, nonostante le innumerevoli richieste che avevo fatto a mio padre. Aveva capito il segreto di Azra ed era per quello che non mi aveva portato mai lì, ora lo so. Anche i minatori l’avevano percepito e volevo controllare il tunnel dopo la loro visita e la breve conversazione al tavolo.

      E ora bevo dalla bottiglia.

      Maledetta Fiat. Tra le tante officine in Serbia, aveva scelto la mia. Azra me l’aveva mandata per ricordare. Dopo un altro sorso, metto la carne nel forno e porto in soggiorno il piatto con gli spuntini. La televisione trasmette il programma dell’ultimo dell’anno, proprio come allora. Cerimoniale e pomposo.

      Invece di conduttrici televisive scadenti e cantanti folkloristiche mezze nude, vedo gli amici di mio padre a tavola, mia madre in cucina e la mia sorellina sull’altalena. Su altri canali, le stesse immagini dei miei ricordi si mescolano agli spettacoli dell’ultimo dell’anno. Mi alzo e controllo la carne, non sarà pronta ancora per un po’. Voglio mangiare, ubriacarmi, sdraiarmi e tuffarmi nell’oblio. Prima di mezzanotte.

      Dagli appartamenti vicini sento risate e musica. Le sento ovunque intorno a me. Ed io, come fossi maledetto, resto seduto da solo con una bottiglia di liquore, i miei demoni e gli orribili ricordi di quella notte. Così prendo un altro sorso e mi godo il liquido che mi alleggerisce la gola e mi riscalda la pancia.

      Un’ombra si sposta davanti a me. Lui.

      Lo guardo entrare nel corridoio a testa bassa.

      - Dove vai, papà? Hai visto la tua Fiat oggi? - chiedo beffardo.

      Resta sulla soglia di casa. Bevo un altro sorso e continuo:

      - Sotto la radio ha ancora l’adesivo che mi hai comprato al negozio all’angolo …

      Non si muove e inizia a mordicchiarsi le unghie.

      Dalla TV suonano le prime note: Love me tender, di Elvis Presley.

      Ancora una volta il destino avverso segue il suo corso; non può essere una coincidenza, ce ne sono state troppe oggi. Questa canzone stava suonando anche allora, in quella notte di Capodanno, quando mio padre era tornato a casa dal lavoro, dal tunnel K-14, Azra.

      All’improvviso tutto mi diventa chiaro, forse a causa dell’alcol o forse del suo comportamento insolito; tuttavia le nuvole di terrore lasciano la mia anima e scompaiono per sempre.

      Non è stata colpa sua. L’ho sempre saputo, bruciava nel mio subconscio ma non l’avevo mai capito. Avevo bisogno della sua colpa come l’aria che respiro per giustificare la mia.

      Elvis continua a cantare, riportandomi a quella notte.

      Mia madre prepara una torta e canta la melodia con Elvis, mia sorella salta intorno al tavolo ed io sono seduto nell’altra stanza a leggere i fumetti. Non mi è mai piaciuto Elvis ed è per questo che non faccio caso alla TV. Il lampeggiare delle luci sull’albero di Natale che io e papà abbiamo montato e decorato mi annoia.

      All’improvviso mia madre mi urla dalla cucina di prendere un grosso coltello dalla dispensa; è nel vassoio con le altre torte. Lo zio adora la torta della mamma, l’ha fatta apposta per lui. Quest’anno festeggiamo insieme il Capodanno.

      Ho finto di non sentire, a causa di Elvis e della sua canzone disgustosa, che contagiava le donne della casa. Mio padre diceva sempre - figliolo, sono donne - e rideva, ma mia madre si accigliava e gli rispondeva con rabbia con parole cattive.

      Mia madre mi chiama di nuovo e chiede il coltello. Pigramente mi alzo dal divano, percorro il corridoio verso la dispensa, apro la porta e trovo il vassoio sullo scaffale e il coltello su di esso. La porta d’ingresso si apre. Mio padre mi passa accanto, non mi vede e lascia una nuvola puzzolente di polvere di carbone. Prendo il coltello.

      Non è andato in bagno a lavarsi, come fa sempre quando torna a casa dal lavoro, ma è andato subito in cucina. Non aveva nemmeno con sé i regali promessi. Sono sicuro che li abbia lasciati nella Fiat. Ora mia madre lo rimprovererà per essere entrato in cucina con i vestiti sporchi.

      Lo seguo e sento mamma:

      - Va a lavarti, perché ti muovi in quel modo?

      Mio padre non risponde. Lei continua:

      - Sei ubriaco? Per l’amor di Dio, lo zio sta per venire e tu ...

      Lei non finisce la frase. Mio padre le afferra i capelli e le sbatte il cranio contro il tavolo. La sua espressione è fredda come la pietra e gli occhi neri come il carbone che sta scavando.

      Mia sorella inizia a urlare. Elvis canta di tenerezza e amore.

      Inorridito, non mi muovo dalla porta della cucina e non riesco a credere ai miei occhi, come se in sogno cogliessi le scene davanti a me. Mio padre continua, la testa di mia madre è insanguinata, e quando la solleva e la spacca, vedo che la sua faccia non c’è più. È scomparsa nella pozza di sangue sul tavolo. Mia sorella continua a urlare coprendosi gli occhi.

      Lui fa cadere mia madre, che crolla come uno straccio dal manico della stufa e si volta verso mia sorella. Alla fine mi rimetto in sesto e riprendo forza nelle gambe, cammino verso di lui attraverso la cucina e gli grido: “Per favore papà, fermati, per favore, fermati!”

      Lo ripeto, apparentemente innumerevoli volte, ma mio padre non mi sente. Lui afferra mia sorella, la solleva sopra la testa e la getta sul pavimento della cucina con tutte le sue forze.

      L’orrore è permanentemente impresso nella mia coscienza.

      Mia sorella è sdraiata sul pavimento come una delle sue bambole. I suoi occhi sono vitrei, sembra che la vita la stia lasciando. Il sangue esce dalle sue orecchie. Mio padre si china e la picchia con il pugno. Lentamente la solleva e colpisce di nuovo.

      Lui mi volta le spalle, sento il peso del coltello nella mia mano, le mie gambe iniziano a muoversi e gli conficco la lama nella sua ampia schiena. Non sente il pungiglione, continua a colpire mia sorella senza curarsi di me e della ferita che gli ho inflitto. Lo pugnalo ancora e ancora con il coltello ma lui non smette di colpire la ragazza indifesa che la vita aveva già abbandonato. Alla fine crolla sul pavimento di linoleum, accanto al minuscolo cadavere, morto.


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