Итальянский с любовью. Осада Флоренции / L'assedio di Firenze. Франческо Доменико Гверрацци
il demonio della strage: non perdonava a cui implorasse quartiere, o a chi resistesse; dal capo alle piante spesso appariva sordidato di sangue del nemico senza che pure una scalfittura ne versasse del suo. Gli Spagnoli, secondo l’indole loro superstiziosi, sospettavano che fosse ciurmato, ma poi, sapendolo uomo del papa si ricredevano, in seguito nel sospetto si confermavano. Dovunque mostra la faccia cessano i colloqui, la gente si apre in due file per lasciarlo passare, assalita da misterioso ribrezzo. Immemore dei circostanti, lunga pezza il Bandino dimorò nello stato di fissazione di che scriveva poc’anzi; all’improvviso, stendendo ambe le braccia, con voce angosciosa prorompe: “O patria mia!”
Quando monsignore di Orange aveva udito quell’esclamazione, pose la mano sopra la spalla sinistra lo interrogando così: “E perché dunque tra i nemici di lei?…”
Si riscuote il Bandino, guata bieco l’Orange e brontolando fugge via a precipizio.
“Ditemi, principe”, – soggiunse poi il Bandino arrestandogli per le redini il cavallo, – “in conto di che mi avete voi?”
“Ma… nel conto che mi avreste me, se io fossi voi”.
“Principe, per favore parlatemi apertamente, in qual concetto mi tenete?”
“Fiorentino movete ai danni di Firenze… di uomo siffatto può essere mai dubbiosa la fama?”
“Ah! certo il nome ch’ei merita ì un solo per tutto il mondo”, – favella in suono sconsolato il Bandino lasciando le redini del cavallo…
“Noi altri Italiani c’innamoriamo in chiesa. Rammento il giorno e il luogo in che lei primamente mi comparve dinanzi”, – continua il Bandino senza rispondere alle parole del principe, fisso com’era nel suo pensiero, – “per la festa di san Zanobi in santa Maria del Fiore, là presso alla parete dov’è sospeso il simulacro del divino poeta, i nostri occhi s’incontrarono insieme; parve che i miei sguardi la infiammassero, Perché lei si fece accesa nel volto, come le vampe di fuoco le ardessero davanti, e abbassò il velo: poco importa; ormai la sua immagine mi stava incisa nel cuore; dovunque guardassi io la vedevo; e quando lei si partì dalla chiesa, io non rimossi mai gli sguardi dal luogo che lei tenne occupato; gli uffici divini cessarono, tacquero gli organi, spensero le cere, ed io per sempre mi rimanevo immobile credendo tuttavia di vederla. Secondo il costume dei giovani cominciai a passare sovente sotto alle sue finestre; presi dimestichezza con gli artefici vicini per avere onesto motivo di trattenermi nella contrada; nella notte o sul mattino, accompagnandomi sul liuto, le cantai sotto il balcone dolcissimi versi d’amore; praticai insomma quello che costumano le persone quando le scalda il petto l’ardente fuoco della passione e loro non sanno che fare solo che manifestarlo alla donna amata. Con quanta speranza io mi muovevo da casa, e come avvilito ci rientravo! Nessun cenno apparve alle finestre mai; mai vidi sporgere un capo il quale indicasse intendere all’amoroso lamento; io conducevo tristissimi giorni disperato della vita.
Venisse l’istante nel quale la fanciulla, vinto il pudore verginale, mi confessava: “Io ti amo… Io vi giuro, monsignore… in che vi giurerò io? Non conosco più nulla di sacro nella terra o nel cielo.”
L’altra notte un famiglio mi conduce verso il palazzo della mia donna. Mi vidi al capezzale il padre della donna, il quale con volto benigno, mi disse: “Attendete a ristorarvi e preparatevi ad ascoltarmi; quello che il cielo vuole forza è che uomo anche voglia!” Lo rividi verso sera, ed accostatosi quanto più presso poteva al mio volto, “Figliuol mio, – cominciava, – poichì umano argomento non vince l’amore che la mia figlia porta per te, e poiché vedo a prova manifesta come anche tu ardentissimamente l’ami, e il contristarvi le nozze sarebbe certa ragione della morte di entrambi, a Dio non piaccia che in questa mia vecchia età prossimo a rendere conto della mia vita all’Eterno, contro al mio sangue mi renda micidiale. La tua stirpe è gentile, i tuoi costumi onesti: una sola cosa mi offende in te, e non è tua colpa, voglio dire il difetto dei beni di fortuna, ciò mi trattenne fin qui dal consentire che tu tolga in moglie la mia figliuola Maria: tu saprai un giorno quanto piaccia al cuore del padre allogare i figliuoli in famiglie più potenti della sua e quanto all’opposto rincresca scemare; però siete giovani entrambi, che tu non mi sembri toccare il diciottesimo anno, e la fanciulla appena ne conta quindici: la fortuna, come donna, ama i giovani; viviamo in tempi nei quali riesce di leggeri, a cui vuole davvero, metter insieme denari; sopra tutte le parti del mondo vedo prosperare i nostri mercadanti in Spagna, fuori di misura doviziosa per l’oro che a lei manda l’India non ha guari scoperte. Io ti prometto la figlia: fidanzatevi, ve lo concedo: poi su questa croce giurami che te ne andrai a procacciare tua ventura in Spagna per tornare presto a condurre donna e statuire famiglia con lo splendore conveniente alla stirpe donde esci e a quella a cui la tua moglie appartiene.” – Promisi e con pieno cuore; – che cosa non avrei promesso? Restituito alla vita, rigoglioso di giovanezza, felice per potere consumare i miei giorni al fianco della donna amata e dirle: “Io ti amo”, e sentirla rispondere: “Ed io pure ti amo”; parole mille volte ripetute e mille volte ascoltate con dolcezza ineffabile… miracolo nuovo di amore!
La fortuna, per flagellarmi meglio, spirò un fiato favorevole nelle vele; partii, giunsi e arrivai a Cadice e a Siviglia, dove impresi traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io crescevo; i pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui; apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m’invidiava, mi applaudiva e adulava.
Due anni passati, tornò a Firenze. E come forte mi tremò il cuore quando prima scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto le ali non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per bussare alla porta, altri bussano per me, si apre, chi mi apriva non guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa ì vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo all’anima mia.... “Sono io morto, perché mi diciate il requiem?” – esclamò maravigliato; e il padre piange e più che mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi. “Anima benedetta, lui diceva con stupenda prestezza, anima benedetta, va in pace, io spenderò in suffragarti l’ultima mia masserizia… Va in pace”. Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano che mai più avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo rampognai. Lui sorse allora tra stupido e spaventato, e: “Tu vivi?” – mi domanda con parole interrotte… Mi tocca… mi bacia… e quando il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei raccontarvi con discorso convenevole.
Lui rivenne tosto, e io ansiosamente gli domandai: “Chi è questo, padre? e la donna mia?” – “La donna tua? Vieni a vedere la tua donna”, – e con impeto giovanile mi trasse fuori di casa.
Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; lì incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in copia palafreni; entriamo in chiesa, la più parte sepolta in profondissima oscurità; andiamo avanti, e pervenuti al punto della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante, coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad un uomo dal piè degli altari una donna, e questa donna è la mia!… Empii di un grido orribile le volte del santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul pavimento. Non piacque all’inferno ch’io mi morissi: udite stupenda nequizia umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da funi… non mi rinveniva, cercava con la mente nì giungeva a indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perché così legato. All’improvviso mi spaventa uno schiamazzo confuso di minacce, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa; e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: “Chiudete le porte, san Pietro!” – “san Paolo, di grazia, a che tenete quello spadone ai fianchi?” – “Ora dov’ì andato l’arcangelo Michele?” – “I demoni danno l’assalto al paradiso.... e’ l’hanno preso”, – “l’hanno preso,” – “scomunicati!” – “eretici!” – “così bussate il Padre Eterno? poveraccio!”