Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele


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qualunque, criminali, amministrativi e anche civili, quando la potenza dell'accusato avesse tolto all'offeso d'ottenere giustizia ne' modi soliti.17 Independente dallo emiro, il câdi nelle città maggiori e lo hâkim nelle altre, esercitava quella tutela delle persone incapaci e opere pie che appo noi va attribuita al pubblico ministero; e inoltre giudicava tutte cause civili e le criminali che richiedessero interpretazione di legge o fossero delegate dall'emiro; fuorchè le cause civili e criminali di minor momento, alle quali era preposto il mohtesib.18 I parenti del profeta aveano magistrato speciale.19 Infine il mohtesib esercitava la giurisdizione meramente esecutiva nelle cose civili, e nelle criminali quella che potremmo chiamare correzionale, se esattamente rispondesse alla definizione dei nostri codici; e al medesimo tempo era oficiale di polizia urbana ed ecclesiastica; vegliava ai mercati; alla giustezza dei pesi e delle misure; allo esercizio delle arti liberali o arti meccaniche o commercii, sì che non nocessero ai cittadini.20

      Dopo ciò, poco rimane a dire dell'amministrazione civile: della quale dapprima ebbe carico il mohtesib; ma l'oficio in alcuni Stati fu diviso, con diversi nomi; e rimase quel di mohtesib al preposto dei mercati.21 La sicurezza pubblica, o sicurezza del despotismo, fu affidata, nelle capitali, a un prefetto chiamato per lo più sâheb-es-sciorta,22 del quale v'ha ricordo negli annali della Sicilia musulmana;23 e il nome rimase per lo meno infino al decimoterzo secolo, quando i capitoli del Regno di Sicilia chiamano Surta le pattuglie di polizia.24 Il mohtesib, o come che si addimandasse, partecipava alle cure edilizie insieme col magistrato municipale propriamente detto, com'oggi l'intendiamo.

      Scarsi quanto siano i ricordi che ci avanzan di cotesta parte di civile reggimento negli Stati musulmani del medio evo, pur non cade in dubbio la esistenza dei corpi municipali. Generalmente si appellavano gemâ', che suona adunanza; come sappiamo del Kairewân sotto gli Aghlabiti;25 di tutte le città d'Affrica nei primordii della dinastia fatemita26; del califato abbassida nel decimo secolo,27 e fino ai nostri giorni delle cittadi e tribù dell'Affrica settentrionale.28 Questo ordine, non istituito da legge scritta, era appunto novella forma del gran consiglio di tribù e di circolo, di che parlammo nelle istituzioni aborigene degli Arabi: e in vero non si potrebbe comprendere che i nomadi, fatti cittadini, avessero disusato quell'ordinamento, quando il novello lor modo di vivere lo rendea sì necessario, se non per trattare le cose politiche, certo per provvedere, con mezzi e volontà comuni, ai bisogni particolari della città. La gemâ' nelle popolazioni arabiche par sia stata composta dei capi di famiglie nobili, dei dotti, facoltosi e capi delle corporazioni di arti, le quali assimilavansi a famiglie e costituivano società di assicurazione reciproca nei casi penali: perciò questo corpo municipale somigliava in parte alla curia romana.29 Non sappiamo se la sciûra, di che si fa menzione negli annali della Spagna musulmana,30 sia la gemâ' sotto altro nome, ovvero una deputazione della gemâ', un comitato esecutivo, diremmo oggi, il quale nei tempi ordinarii amministrasse i negozii del municipio deliberati dalla gemâ'; ma certo è che nei tempi torbidi reggeva le faccende politiche. Nei tempi ordinarii la gemâ' era richiesta, in difetto dell'erario, di provvedere, per contribuzioni volontarie di danaro o d'opera, alla costruzione o restaurazione degli acquedotti, delle mura, delle moschee cattedrali e al sovvenimento dei viandanti poveri. La richiedeva il mohtesib; poteva obbligarla il solo principe, e nel sol caso che la città fosse piazza di confini, onde, cadute le mura o dispersa la popolazione, ne sarebbe tornato pericolo a tutto il reame. La obbligazione, sempre era collettiva, non individuale: dal che ognun vede essere stata la gemâ' corpo morale, e vero municipio. Alla ristorazione delle moschee minori provvedeano quei circoli o quartieri che le possedessero; e trascurandosi da loro cotesto dovere, il mohtesib era tenuto a farne memoria.31 Ciò conferma il fatto che oltre il magistrato municipale della città ve n'era altri di quartiere o contrada;32 istituzione necessaria nelle città musulmane, le quali, al par che le nostre del medio evo, eran divise in quartieri, abitati per lo più da nazioni o arti diverse.

      Cotesti ordini dall'Affrica passarono senza dubbio nella colonia siciliana; onde v'ha memoria della gemâ' di Palermo, costituita come le altre a modo aristocratico; e pronta a trapassare alla usurpazione dell'autorità politica.33 La riputazione dei giuristi che notai trattando dell'Affrica, va supposta necessariamente in Palermo, ove fiorirono nei principii del decimo secolo gli studii di dritto, secondo la scuola di Malek.34 Contuttociò non apparisce in Sicilia l'umor di parti di cittadini e nobiltà militare, ond'erasi agitata l'Affrica nei principii del nono secolo. La concordia durava per esser fresco il conquisto; e perchè nobili e cittadini di schiatte orientali stanziavano la più parte in Palermo, uniti da interessi comuni, dalla gelosia contro il governo d'Affrica, e dalla brama di sopraffare i Berberi lor compagni nell'isola.

      Pria di passare all'azienda son da esaminare i due ordinamenti economici della colonia dai quali dipendea principalmente la entrata e la spesa pubblica; cioè, il primo, la costituzione della proprietà territoriale; il secondo, i ruoli militari. Molto si è disputato tra i dotti europei sul dritto di proprietà nei paesi musulmani; e manca nondimeno una verace e nitida esposizione di tal materia; ond'è forza ch'io mi provi ad abbozzarla. Premetto essere erronea la generalità, che si è troppo ripetuta e renderebbe superfluo ogni esame; cioè che tutti i terreni appartengano in proprietà a Dio, e per lui al pontefice principe.35 Gli eruditi che trovarono tal paradosso, tolsero in iscambio di dichiarazione di dritto le frasi poetiche o teologiche, come voglia dirsi, frequentissime nel Corano: che Iddio è padrone del Cielo e della Terra, padrone dei Mondi, e via discorrendo. Al certo i Musulmani, ammesso un creatore, lo doveano tener signore di sue proprie fatture; ma pensavano ch'egli avesse lasciato il terreno, non altrimenti che l'acqua, l'aria, il fuoco, la luce, a utilità universale delle creature; non donatolo in particolare a Maometto, e molto manco ai pontefici che gli dovean succedere.

      Tanto egli è vero non aver mai il Profeta presunto sì strano dritto, che, secondo una tradizione sua, l'erba, unico prodotto del suolo nella maggior parte dell'Arabia, si tenne sì come l'acqua e il fuoco proprietà comune di tutti gli uomini.36 Tali anco furono risguardati certi minerali agevoli a raccogliere, come sale, antimonio, nafta, antracite.37

      Dal dritto nomade volgendoci a quello delle popolazioni stanziali, è manifesto che il Corano e la Sunna riconoscano la piena proprietà delle terre coltivate, al medesimo titolo che la proprietà mobile. L'una e l'altra maniera di facoltà va soggetta ad unica tassa: dieci per cento su i prodotti del suolo, e due e mezzo su la quantità degli armenti, moneta e altri beni mobili; la quale gravezza, ragionandosi nel primo caso su la rendita e nel secondo sul capitale, viene a ragguaglio, o torna più lieve su le terre che su gli altri capitali.38 Maometto, imitando così le decime giudaiche, ne mutò lo investimento; e con sublime idea chiamò questa tassa sedekât o vogliam dire offerte di schietto animo, e zekât39 che suona purificazione: purificazione, dir volle, della colpa che ha il ricco lasciando morir di fame i poveri e mancar le entrate allo Stato. In vero tassa di poveri è questa, non men che pubblica contribuzione; andando tripartita per legge tra lo erario, i parenti del Profeta e i bisognosi, fossero orfanelli, viandanti, o altri.40 Le proprietà esistenti, rispettate così dallo islamismo, si trasmetteano, al par che i beni mobili, per vendita, donazione o


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<p>17</p>

Mawerdi, op. cit., lib. VII, p. 128, seg. Veggasi anche Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 132, seg. Talvolta il principe delegava alcuno allo esercizio di questa somma giurisdizione. Così abbiam ricordi di un wâli-l-mezâlim in Affrica sotto gli Aghlabiti, che poi fu câdi in Palermo.

<p>18</p>

Mawerdi, op. cit., lib, III, p. 48, 51, 52, 53; lib. VI, p. 107, seg.; e lib. XX, p. 405 a 408. Si avverta che la giurisdizione non restò divisa nè in tutti i paesi nè in tutti i tempi nel modo che porta il Mawerdi. Io ho voluto seguire a preferenza questo scrittore, perchè è contemporaneo alla dominazione musulmana in Sicilia, e ci mostra l'ordinamento normale d'allora, meglio che nol farebbero i trattati relativi all'impero ottomano, all'Affrica ec., al giorno d'oggi.

<p>19</p>

Mawerdi, op. cit., lib. VIII, p. 164, seg.

<p>20</p>

Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 404, seg. Veggasi ancora presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 468 a 470, uno squarcio dei Prolegomeni di Ibn-Khaldûn, il quale in parte copia litteralmente Mawerdi, e in parte aggiugne fatti novelli.

<p>21</p>

Makkari, presso Gayangos, The Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. 105; Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 166.

<p>22</p>

Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, presso Gayangos, op. cit., tomo I, p. XXXII; e nello stesso volume, Makkari, p. 104, e nota a p. 398; Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 184. Al Cairo fu detto wâli-l-beled, prefetto della città; in Spagna, sâheb-el-medîna, preposto della città, sâheb-el-leil, preposto della notte, e sâheb-es-sciorta. Gli Omeîadi aveano la grande e picciola sciorta, come noi diremmo alta e bassa polizia.

<p>23</p>

Ibn-Khallikân, Wafiat-el-'Aiân, Vita di Abu-Mohammed-Iahia-ibn-Akthem, fa menzione del sâheb-es-sciorta di Palermo sotto il principe kelbita Thikt-ed-daula. MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 502, fog. 326 verso; e 504, fog. 234 recto.

<p>24</p>

Capitolo LVI di Giacomo, e XVII di Federigo di Aragona; Diploma di Carlo d'Angiò del 24 ottobre del 1269, nella Biblioteca Comunale di Palermo, MS. Q. q. G. 2, pei Magistri sorterii di Palermo. Dalle annotazioni di monsignor Testa ai detti luoghi dei Capitoli del Regno, si vede usata infino ai principii del XVIII secolo in dialetto siciliano la voce sciorta, che latinamente scriveano sorta, surta, xurta, ec.

<p>25</p>

Veggansi il Lib. I, cap. VI, p. 133, seg., e p. 148; e il Lib. II, cap. II, p. 259.

<p>26</p>

Il Mehdi usava far leggere i suoi rescritti e avvisi di vittorie nella gemâ' di ciascuna città. Baiân, testo, tomo I, anni 296 a 300.

<p>27</p>

Veggasi Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XX, p. 411 a 414.

<p>28</p>

Daumas, Le Sahara Algérien, p. 72, 290, 293; e il medesimo, Mœurs et Coutumes de l'Algérie, p. 10.

<p>29</p>

Ricordinsi i wagih, sceikh e fakîh del Kairewân, di cui si fa parola nel Libro I, cap. IV, p. 148. Mawerdi, l. c., adopera il nome generico di dsui-l-mekena, ossia “notabili, o capaci;” i quali par non fossero i soli possessori e capitalisti, poichè si dice che possano contribuire alle opere pubbliche, sia con danaro, sia con lavoro. Ei nota essere così fatto obbligo non individuale ma dell'universale, ossia gemâ' dei cittadini notabili. Lo stesso autore adopera la voce dsui-l-mekena per denotare quella classe di persone alle quali furon date in enfiteusi dal califo Othmân le terre demaniali del Sewâd, lib. XVII, p. 335.

<p>30</p>

Ibn-Khallikân, Wafiât-el-'Aiân, nella vita di Ibn-Zohr (Avenzoar) morto a Cordova il 1130, dice che l'avolo di costui avea tenuto alto grado nella sciûra. Veggasi la versione inglese di M. De Slane, tomo III, p. 139, ed a p. 140 la nota 12, ove questo erudito orientalista fa considerare che in Spagna e nell'Affrica settentrionale ogni città aveva il counsel or committee che aiutasse il governatore (e questa non parmi espressione esatta) nello esercizio del suo oficio, e si componea dei capi dei varii quartieri, del câdi, e delle antiche e influenti famiglie del luogo. Nel tomo II, p. 501 della stessa versione, si parla d'un Consiglio simile a Murcia.

A Tripoli fin oltre la metà del XII secolo v'ebbe un “Consiglio dei Dieci” che cessò al conquisto degli Almohadi; come l'afferma Tigiani, Rehela, versione francese di M. Rousseau, p. 186, 187. (Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 135, 136.)

Negli Stati ove è prevalso più il dispotismo, è rimase in vece della gemâ' un sol oficiale municipale, detto sceikh-el-beled, “l'anziano del paese,” mezzo tra eletto ed ereditario; come si ritrae per l'Affrica settentrionale da M. Worms, Recherches sur la propriètè territoriale dans les pays musulmans, p. 373, 427; e per l'Egitto, dal Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 171.

<p>31</p>

Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 411, a 414.

<p>32</p>

Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 170.

<p>33</p>

Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 261; MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, dice dei Beni Tabari, ch'erano degli 'aiân, ossia caporioni della gemâ' in Palermo.

<p>34</p>

Riadh-en-Nofûs, MS., fog. 79 recto, nella vita di Lokmân-ibn-Iûsuf

<p>35</p>

Una quarantina d'anni fa, sostenne quest'assioma il barone De Hammer, oggi consigliere aulico dell'impero austriaco. M. De Sacy lo confutò, prima nel Journal des Savants del 1818, poi nella terza delle sue Memorie su la proprietà in Egitto, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo VII, p. 55, 56. Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 129 e 248, amò meglio seguire il consigliere aulico, che il dotto professor di Parigi. Il signor Benedetto Castiglia, in uno articolo di giornale che sopra ho avuto occasione di lodare, La Ruota, Palermo, 30 agosto 1842, si appigliò a questo paradosso, e scrivendo in fretta lo attribuì a M. De Sacy. A così fatta teoria rimangono ormai pochi partigiani. La rigetta espressamente M. Worms nella detta opera, Recherches sur la constitution de la propriètè territoriale dans les pays musulmans. Nè so come M. Du Caurroi riparli di Messer Domeneddio proprietario universale, Journal Asiatique, IVe série, tomo XII, p. 13 (1848), senza allegar nuove autorità.

<p>36</p>

Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XVI, p. 325; Hedaya, libro LXV, tomo IV, p. 140.

<p>37</p>

Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 341. Traduco “antracite” la voce kâr, che secondo i dizionarii significa “pece liquida.”

<p>38</p>

Il 10 per cento su la raccolta annuale dei grani, frutta, miele ec., si ragguaglia al 2 12 per 100 su gli armenti, danaro, merci, masserizie ec., supponendo che coteste maniere di capitali rendessero il 25 per 100. Non arrivando a sì alto segno il fruttato dei capitali mobili, essi vengono a pagare più che i capitali fissi delle terre. Avvertasi che il 10 si ragiona su i prodotti del suolo bagnato da pioggie periodiche o acque sgorganti. Le terre inaffiate con macchine idrauliche, richiedendo maggiore spesa di cultura, son tassate al 5. Al contrario, quelle irrigate con acqua di canali che mantiene lo Stato, pagano il 20; nel qual caso il doppio dazio va per censo dell'acqua.

<p>39</p>

Seguo l'uso generale nella trascrizione di questa, voce, la quale secondo il modo tenuto nel resto del mio lavoro andrebbe scritta zekâ.

<p>40</p>

La zekât è dovuta dai soli Musulmani adulti, sani di mente e liberi, che posseggano oltre un certo valore fissato dalla legge. Si chiama anche decima. Il ritratto è stato sovente distolto dalla sua destinazione legale; usurpandolo i governi, che poi si sgravavano la coscienza in opere di pietà o di carità. Veggansi a tal proposito: Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, p. 195, seg., e lib. XVIII, p. 366, seg.: questo dottore sciafeita riferisce il dritto come si tenea nella propria scuola, cita le opinioni delle altre e i fatti fino al tempo e paese suo, cioè tra il X e l'XI secolo, a Bagdad; Hedaya, lib. I, versione inglese, tomo I, p. 1, seg., che mostra il dritto osservato in India nel XVIII secolo secondo la scuola di Abu-Hanîfa; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo II, p. 403, e tomo V, p. 15, seg., che riferisce anco il dritto hanefita, osservato alla stessa epoca in Turchia; Khalîl-ibn-Ishâk, Précis de jurisprudence musulmane, traduit par M. Perron, cap. III, tomo I, p. 328, seg. Quest'autore, di scuola malekita, visse nel XV secolo. Il suo compendio, brevissimo e oscurissimo, fa legge in Affrica. Veggasi anche Burckhardt, Voyage en Arabie (versione francese), tomo II, p. 294, che descrive la pratica dei Wababiti, puritani dell'islamismo ai tempi nostri. Le varie scuole ed epoche fan poca differenza nell'applicazione degli statuti su la zekât.