Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele


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aghlabiti, per la elezione dell'emiro. Appartenendo all'emiro quella piena autorità che abbiam detto, e non potendo cadere in mente del principe, nè dei coloni, nè dì niun Musulmano, di riformare la legge; ciascuna delle due parti cercava a por mano alla esecuzione: fare esercitare l'oficio di emiro da uom suo, e a comodo suo. Racchiudeasi in cotesta contesa quella di finanza: se la colonia dovesse pagar tributo o no; poichè il principe non avea ragione, che nei sopravanzi, e all'emiro stava di trovarne o non trovarne. Indi il principe eleggea lo emiro, e i coloni lo scacciavano; o costoro coglieano un pretesto di nominarlo, e il principe lo rimovea; nè potea durar la quiete.

      L'altro movimento era la lotta tra gli Arabi e i Berberi. Oltre il partaggio delle terre al quale accennammo, oltre le vendette private che degeneravano in vendette di tribù, nacque verso la fine del nono secolo una causa perenne di lite. A misura che compieasi il conquisto dell'isola, mancava il bottino e cresceva il fei, o vogliam dire rendita militare. Per caso intervenne al medesimo tempo che le armi della dinastia macedone sforzassero a uscir di Calabria i Musulmani, Berberi in gran parte, come cel mostrano i nomi dei capi. I Berberi dunque delle tribù più turbolente, quei che non amavano a vivere di agricoltura, doveano procacciar lo stipendio sul fei. Ma questo non si scompartiva, come il bottino, con legge immutabile e precisa, tra tutti i combattenti; anzi stava ad arbitrio tra dell'emiro e del principe; e gli Arabi potean pretendere che ne fossero esclusi gli stranieri, toccando a loro il primo luogo nei ruoli. Niun cronista fa motto di tal contesa; ma la non potea non accadere; e ce ne conferma il fatto che la Sicilia fu insanguinata per la prima volta in guerra civile pochi mesi dopo il ritorno delle masnade che Niceforo Foca scacciò dalle Calabrie.92

      Quei due movimenti si frastagliavan sovente, e il secondo cadde in acconcio al principe aghlabita che volle davvero soggiogare la colonia. Ricapitolando i fatti che narrammo nel Libro secondo, si scorge la lotta d'independenza principiata proprio alla fondazione della colonia palermitana; sopita da savii emiri di sangue aghlabita; ridesta verso l'ottocento sessantuno, come n'è indizio il frequente scambio degli emiri. Quel valoroso e nobilissimo Khafâgia, ucciso a tradimento da un Berbero, sembra cadesse vittima dell'altra discordia; se pur Arabi e Berberi non s'erano uniti per brev'ora contro le usurpazioni del poter centrale. Così fatta resistenza durava nei principii del regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, come il provano gli scambii degli emiri verso l'ottocento settantuno. Poi entrambe le divisioni divampano al medesimo tempo. Tra l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette, gli Arabi del giund e i Berberi vengono al sangue: la nimistà loro, se non la aperta guerra civile, arde tuttavia per dieci anni, sì che viene a dettare lo scandaloso patto di torsi a vicenda dall'una e dall'altra gente gli statichi da consegnarsi ai Cristiani (894-895). Nello stesso decennio la tenzone della colonia col principe arriva agli estremi: ribellione armata da una parte; dall'altra, repressione con le armi e fors'anco violazione della legge fondamentale che affidava all'emiro il governo della colonia. Perocchè il popolo di Palermo, mentre guerreggia la prima fiata contro i Berberi (886-887), mette ai ferri e caccia in Affrica lo emir Sewâda e gli dà lo scambio; tre anni appresso (890) combatton Siciliani contro Affricani, che è a dire contro le forze mandate dal principe; a capo di due anni un emiro rientra per forza in Palermo; e corsi pochi mesi, nel dugento ottanta dell'egira (893-894), l'emirato di Sicilia è conferito al gran ciambellano che stava accanto a Ibrahim, cioè la colonia è oppressa e spogliata di sue franchige, ovvero ha scosso il giogo; e di certo par che l'abbia scosso tra il novantacinque e il novantasei quando è fermata pace coi Cristiani.93 Si scorge in cotesti travagli il doppio effetto della condizione politica dei popoli e delle passioni d'un uomo. La condizione dei Berberi rispetto agli Arabi, e della colonia rispetto alla madre patria, avea dato principio alle due tenzoni. Ibrahim-ibn-Ahmed le spinse al segno a che arrivarono negli ultimi anni del nono secolo. Per domar meglio la colonia di Palermo, aizzò i Berberi di Girgenti. Volle domar la colonia, perchè a questo il portava sua natura esorbitante e feroce; e per trarne danaro e adoperarlo all'altro disegno, d'abbattere e calpestare l'aristocrazia arabica in Affrica; il che ei fece sì bene, che distrusse la base della dinastia aghlabita, onde questa entro pochi anni crollò.

      CAPITOLO II

      Ibrahim-ibn-Ahmed non solamente avviluppò in questa guisa la condizione politica della colonia, e poi sciolse il nodo con orribile catastrofe, ma, non sazio di quel sangue musulmano, venne ei medesimo in Sicilia a sterminare gli ultimi avanzi de' Cristiani; prosegui la vittoria in Calabria; e minacciava tutta la terraferma d'Italia, quand'ei morì com'Alarico sotto le mura di Cosenza. Pertanto debbo dir di costui più particolarmente che non abbia fatto degli altri principi affricani. Il voglio anche perchè l'indole d'Ibrahim, sembra fenomeno unico nella storia morale dell'uomo, nè si può definir con parole, nè delinear con qualche tratto. Unico fenomeno parve a quei che il videro da presso; i quali, facendosi a spiegarlo e non trovandovi modo con la psicologia del Corano, ebbero ricorso alle teorie dei materialisti che già penetravano appo gli Arabi, miste alla filosofia greca; supposer quest'uomo invasato di non so che bile negra: malinconia, come la chiama tecnicamente Ibn-Rakîk.94

      “Niun dee misfare fuorchè il principe. La ragione di questo è che, ove gli ottimati e i ricchi si sentan possenti nei beni della fortuna, uom non vivrà sicuro dalla loro insolenza e malvagità. Se il re cessi di calcarli, ecco che si fidano; gli resistono; gli traman contro! In vero il succo vitale del principato è la plebe.95 Il signor che lasciassela opprimere, perderebbe l'utile ch'ei ne ricava; ed altri sel godrebbe, rimanendo a lui il sol danno.”96 Così parlava Ibrahim-ibn-Ahmed, vantandosi di abbattere la nobiltà arabica dell'Affrica: teorie e gergo molto ovvii, che rivelan sempre il tiranno di buona scuola. Sagacissimo fu veramente Ibrahim nelle cose di stato; uom di mente vasta e savia, quando non l'offuscava la sete del sangue. Ebbe genio alieno dalle scienze, dalle lettere e dalla poesia, ch'erano state in onore appo i suoi maggiori: e qualche versaccio ch'ei fece, come nato e cresciuto in una corte arabica, somiglia forte a quelli di Carlo d'Angiò, per la insipidezza e l'arroganza.97 In fatto di religione si mostrò osservatore del culto, più che delle pratiche di devozione; si ridea della morale quando non gli andava a' versi; ma era sopratutto intollerantissimo verso gli altri. Visse senz'amore, nè amicizia. Seguì voluttadi nella prima gioventù, e presto gli vennero a tedio; e allora incrudelì nelle donne più rabidamente che negli uomini; e le abborrì di strano e sospetto abborrimento. Violava in tutti i modi le leggi della natura.

      A venticinque anni salì al trono per uno spergiuro. Mohammed, suo fratello, venendo a morte, lasciava il regno al proprio figliuolo bambino; commettea la tutela a Ibrahim; faceagli far sacramento di non attentar mai ai dritti del nipote, nè metter piè nel Castel Vecchio, ove quegli dovea soggiornare con la corte. E Ibrahim, nella moschea cattedrale del Kairewân, dinanzi gli adunati capi di famiglie di sangue aghlabita e i magistrati e notabili della capitale, giurollo solennemente; ripetè cinquanta fiate il tenor del giuramento, com'era usanza nelle cause criminali. Sepolto il fratello (febbraio 875), cominciò a regger lo Stato, ben diverso da lui, con somma forza e giustizia. Indi i cittadini del Kairewân a pregarlo di prendere a dirittura il regno: il che ricusò, pretestando suoi cinquanta giuramenti; e di lì a poco, noi sappiam come si fa, i buoni borghesi tornarono a supplicare più fervorosi, e Ibrahim non seppe dir no. Uscito di Kairewân alla testa del popolo in arme, occupava il Castel Vecchio; si facea gridar principe; e prestare omaggio di fedeltà dai notabili d'Affrica e da non pochi di casa d'Aghlab. Con tutta la bruttura dello spergiuro e della commedia che servì a ricoprirlo, Ibrahim non va chiamato usurpatore. Il dritto di primogenitura non era allignato mai appo gli Arabi; la designazione del principe antecessore, era abuso; la investitura del califo, ormai vana cerimonia; e il popolo, che potea deporre ed eleggere, partecipò alla tumultuaria esaltazione non sforzato, forse mezzo raggirato e mezzo no. Gli umori delle città contro l'aristocrazia militare, ci persuadono che la cittadinanza abbia francamente parteggiato per Ibrahim.

      Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè


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<p>92</p>

Veggasi il Libro II, cap. X, p. 424; e cap. XI, p. 440 del primo volume. Secondo Ibn-el-Athîr, e il Baiân, la cacciata dei Musulmani da Amantea e Santa Severina seguì il 272 (17 giugno 885 a' 6 giugno 886), la qual data si riscontra con quella degli annali bizantini. La prima guerra civile tra Arabi e Berberi in Sicilia scoppiò tra l'autunno dell'886 e la primavera dell'887, secondo la testimonianza della Cronica di Cambridge, combinata con quella del Baiân.

<p>93</p>

Veggasi il Libro II, cap. X, p. 429, seg., del primo volume.

<p>94</p>

Citato da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M. Des Vergers, p. 139. Nel testo si legge in caratteri arabici Mâlankhûnîa (Μελανχολία). Forse attinse alla stessa sorgente l'autore del Baiân, tomo I, p. 126, il quale, in luogo di trascrivere la denominazione della malattia, la traduce: “bile negra.”

<p>95</p>

Litteralmente “la materia onde cresce il re, sono i rai'a.” Questa voce arabica, come ognun sa, vuol dir gregge; ed è passata in termine tecnico per designare il popol minuto delle città e campagne.

<p>96</p>

Nowairi, Storia d'Affrica, MSS. di Parigi, Ancien Fonds, 702, e 702 A, fog. 23 recto del primo, e 54 del secondo. Mi allontano alquanto dalle versioni non precise che han dato di questo passo M. Des Vergers, e M. De Slane, il primo in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 139, e l'altro in appendice a Ibn-Khaldûn stesso, Histoire des Berbères, tomo I, p. 435.

<p>97</p>

Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 32 verso. L'autore allega in esempio il distico d'Ibrahim:

“Astri siam noi, figli degli astri; avol nostro la luna del cielo, Abu-Nogiûm-Tamîm;

“Avola nostra il Sole. Or chi s'agguaglia a noi, discesi di due sì nobili schiatte?”

A chi non conosce l'arabico è da avvertire che in quella lingua la luna è di genere maschile, il sole femminino, e Abu-Nogiûm significa “padre delle stelle.”

Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIª, cap. LXXV, riferisce, senza citare sorgente, un aneddoto anacreontico, seguito forse nella prima gioventù di Ibrahim. Certo poeta, per domandargli non so che grazia, scrivea due versi in un pelizzino, e il nascondea, come noi facciamo nei confetti, entro una rosa, presentata a Ibrahim mentre sedeva in un giardino tra le sue donne. Una lesse e cantò i versi; e Ibrahim donò al poeta cento monete d'oro.