Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo

Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo


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in Milano ne ricordavano il mite regime teresiano e leopoldino come un ideale di autonomia, in confronto delle prepotenze repubblicane e imperiali piovuteci dalla Francia. Quegli uomini mancarono piuttosto, e mancarono affatto, dell'esperienza politica, che s'acquista unicamente colla meditazione e colla lettura. Furono vittima di quella illusione, che seduce sempre le menti volgari, di credere che un partito o un governo, abbandonato ad un dato punto della vita, sia rimasto immobile e si possa riprendere e ripresentare colle stesse forme e cogli stessi caratteri, allo stesso punto in cui s'è lasciato.

      Il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo

      che non vede, non sente, non istudia le modificazioni che intorno a lui e in sè stesso cagiona la forza delle cose o lo spirito dei tempi, non sa immaginare che si sia mutato o in bene o in male quel partito, quel governo, quel sistema che da un pezzo ha perduto di vista. S'ostina a respingerlo o a ribramarlo, sulla base delle passate nozioni, inconscio dello squilibrio che vi può essere fra la sua ricordanza ed il vero; e quando poi la fortuna dei casi lo ripone in contatto con quella forma, desiderata o abborrita, dei tempi andati, s'accorge con sorpresa che quella forma è mutata, che ha subìta, affrettata, compiuta quella stessa evoluzione benefica o disastrosa da cui egli credeva che fosse rimasta lontana od immune.

      Questo complesso di circostanze e di idee, unito probabilmente ad un senso di gelosia e ad un ricambio di antipatia pel duca di Lodi, unito ad una certa sfiducia dell'uomo d'affari per quella vaghezza di teorie e quella imprecisione di scopi che distinguevano il partito degli Italici puri, pose risolutamente il Guicciardi campione della resistenza contro il programma savio e patriottico esposto al Senato nella seduta del 17 aprile.

      Rifar qui la storia di quella discussione parlamentare non sarebbe forse inutile, ma sarebbe certamente assai lungo; nel complesso, la sua intonazione fu meschina e rivelava la pochezza dei valori intellettuali rimasti in quella assemblea. È, del resto, uno dei fenomeni più volte ripetutisi nella storia, che, alla vigilia delle grandi crisi, l'eloquenza parlamentare si trovi quasi sempre inferiore all'urgenza delle situazioni o schiacciata da quelle. Invece di affrontare la discussione delle cose, si affronta quella delle apparenze; invece di trarre i fatti dalla necessità delle parole, si cerca di oscurare i primi sotto il viluppo delle seconde.

      Il Guicciardi, secondato dai suoi, combattè innanzi tutto con mozioni d'ordine; mostrò dubitare che il Guardasigilli avesse facoltà di convocare straordinariamente il Senato; gli contestò il titolo di rappresentante dello Stato, mentre, a suo credere, lo era soltanto del governo; propose, vecchio espediente d'ogni nuova contesa, la nomina di una Commissione per istudiare l'argomento. Propostosi un Comitato segreto, per discutere subito l'affare e prendere una deliberazione, il Guicciardi si oppose di nuovo, sostenendo che un Regolamento organico del 1809 non consentiva al Senato il metodo dei comitati segreti.

      Per uscirne, fu deciso che una Commissione, secondo il suggerimento di Guicciardi, si nominasse seduta stante e che il Senato fosse riconvocato la sera stessa alle otto per udirne la relazione. Guicciardi fu eletto naturalmente a far parte della Commissione, e fu incaricato, col Verri e col Dandolo, di recarsi dal duca di Lodi per udirne schiarimenti e notizie.

      Questo colloquio e le gravi e dignitose parole del vecchio uomo di Stato parvero scuotere la Commissione; la quale, scelto a relatore il Dandolo, accettò e propose al Senato l'invio della Deputazione, dirigendola però a tutte le Potenze Alleate e sostituendo alla domanda esplicita del trono pel Vicerè un elogio cauto ed insignificante delle sue virtù. Questo inciso aveva, nella sua forma ipocrita, una significazione anche maggiore di indifferenza per la persona del Principe; e in tal modo lo commentò Carlo Verri, lasciando intendere che dubitava fossero i voti della nazione favorevoli a lui. L'imminenza del voto decisivo scosse i senatori del partito vicereale, e il Vaccari, il Paradisi, il Prina sostennero energicamente la forma del messaggio Melzi, facendo notare a ragione che, escludendo la domanda del principe a Re, lo scopo del decreto e della Deputazione si risolveva in una inutilità. Al che Guicciardi rispose, che essendo, per gli Statuti Costituzionali del Regno, erede diretto della corona d'Italia il figlio legittimo dell'imperatore Napoleone, i senatori, che erano tali in forza di quegli Statuti, non potevano chiedere un altro Re. Il ragionamento era rigido, ma non era leale; giacchè a nessun uomo di senno poteva sembrare possibile che la coalizione lasciasse un trono al successore immediato dell'uomo contro cui s'era rovesciata; e si ricadeva nel sofisma e nel bizantinismo, rifiutando di riconoscere la situazione di fatto per aggrovigliarsi nelle situazioni di forma.

      Ben lo fecero notare Prina e Luosi, proponendo una nuova dizione che riservasse almeno il diritto eventuale del principe Eugenio. Guicciardi non cedette su nessun punto; ed essendosi venuti ai voti, piuttosto per istanchezza che per esaurimento della discussione, come accade nelle sedute parlamentari notturne, quasi tumultuariamente il Senato approvò a grande maggioranza il progetto della Commissione, nominando il Guicciardi e Luigi Castiglioni a deputati presso le potenze alleate. E i due deputati, accettato, sebbene a malincuore, l'incarico, e forniti dal duca di Lodi delle commendatizie necessarie presso i governi europei, partirono infatti da Milano il giorno susseguente e si trovarono in Mantova la sera del 19.

      La seduta del 17 aprile ebbe un contraccolpo immediato sull'attitudine dei partiti in Milano.

      I cospiratori del partito austriaco, visto che nel Senato il governo era ridotto ad una piccola minoranza, decisero di approfittare della circostanza per sollecitare quella rivolta di piazza, che doveva, nel pensier loro, rendere inevitabile l'intervento dell'esercito austriaco e quindi la definitiva occupazione, a tutela dell'ordine pubblico.

      Gli Italici poi, indispettiti perchè nel Senato stesso neanche una voce si fosse levata a sostenere il loro programma, rivolsero i loro sforzi contro il Senato stesso, considerandolo, nella loro cecità, come l'unico ostacolo al trionfo della parte loro. Fra due partiti, chiaritisi ostili ad un terzo, una coalizione per distruggere è presto fatta. Gli Austriaci accordarono il loro appoggio e le loro firme ad una protesta che gli Italici presentavano, contro la deliberazione del Senato, per domandare l'immediata convocazione dei Collegi Elettorali, come unica legittima rappresentanza del Regno. Gli Italici dovettero tollerare, con trista e tacita complicità, l'agitazione popolare che il Ghislieri, il Gambarana e il Traversi organizzavano con torbidi elementi chiamati dal Pavese e dal Novarese.

      La protesta in favore della convocazione dei Collegi Elettorali era imponente per la stessa moderazione con cui era redatta, pel numero e per la qualità delle firme ond'era accompagnata. Il primo nome sottoscritto era quello del generale Domenico Pino, e dietro a lui venivano tutti i nomi più noti dell'aristocrazia e dell'alto commercio, i Porro, i Trivulzi, i Confalonieri, i Fagnani, i Borromei, i Visconti, i Greppi, i D'Adda, i Cicogna, i Rasini, i Mellerio, i Sormani, i Trotti, i Brambilla, gli Arese, i Ciani, i Busca, i Silva, i Bossi, i Giovio, i Serbelloni, i Crivelli, i Castiglioni, gli Scotti, i Castelbarco, i De-Capitani, i Balabbio, i Besana, i Barbò; v'era il presidente del Consiglio comunale, conte Gian Luca Della Somaglia; vi erano il podestà di Milano, conte Durini, e tutti i Savj municipali; v'erano le illustrazioni intellettuali, Carlo Porta, il Monteggia, il Cagnola, Carlo Rosmini, e un giovane già alto nella riputazione cittadina, Alessandro Manzoni.

      Questo documento parve atto così grave e così pieno d'incognite minaccie a Carlo Verri, uomo di animo retto e fermo, non indegno dei suoi illustri fratelli, che si recò senza indugio a casa del duca di Lodi, supplicandolo a prendere, come depositario del supremo potere, misure di previdenza. Fu inutile; il duca di Lodi, prostrato da un accesso di gotta, ingannato dai rapporti di una polizia che s'era fatta complice dei turbolenti, forse persuaso in cuor suo che ogni cosa precipitava e non v'erano più probabilità di salute, non volle far nulla. Era fatale che la catastrofe succedesse20.

      La mattina del 20 aprile era il giorno ordinario delle riunioni del Senato; e, malgrado l'eccitazione popolare, che già si annunziava, il presidente Veneri non ebbe il coraggio di sospendere la convocazione. Pioveva; e i senatori s'avviavano nelle loro carrozze verso il palazzo dove solevano radunarsi.

      E allora, in quel palazzo dove oggi accorrono gli studiosi del tempo antico a frugare le polverose cartelle degli Archivj di Stato, in quel cortile dove un imperatore di bronzo aspetta, colla stessa imperturbabilità di cui fu simbolo in vita, che si risolva il quesito di giustizia storica e di libertà politica agitato intorno al suo nome, accadde la seguente scena.


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<p>20</p>

Per una inesattezza, che è, bisogna dirlo, affatto eccezionale nel diligente Cusani, questi asserisce nella sua storia che “sopraggiunti Veneri e Guicciardi, confermarono il racconto, insistendo sull'imminente pericolo del Prina.„ Ora questo può essere pel Veneri, ma pel Guicciardi certamente non è, giacchè il Guicciardi era partito col senatore Castiglioni, fin dal 18 per Mantova, dove giunsero il 19, e fu lì, e alla stessa presenza del principe Eugenio, ch'essi udirono i fatti occorsi a Milano, riferiti al principe dai fuggitivi ministri, Vaccari e Méjean.