Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo

Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo


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anni del regno, divenuto più serio e più pensoso, reagì nobilmente contro quelle prime spensieratezze giovanili, gettandosi nelle cose militari, dove mostrò talenti distinti e raccolse plauso ed onori. Ma neanche lì risparmiò raccolta di avversarj, scoppio di rancori, addensati da rivalità di campo o da misure di disciplina. Nel complesso, non era odiato, ma era impopolare; impersonava diffidenze, pericoli, antipatie che avevano cagioni varie, non tutte e non le più gravi imputabili a lui; nè bastava a rompere questa corrente la dolce influenza della Vice-regina, Amalia di Baviera, a cui le tradizioni dell'epoca attribuiscono concordi lo scettro della gentilezza e della virtù.

      Fra queste gare e queste influenze si veniva peggiorando lo spirito pubblico, a cui era venuta meno la saggia impulsione di Francesco Melzi. Infatti, il Gran Cancelliere, ridotto dal nuovo regime a funzioni di parata piuttosto che a direzione d'affari, perdeva sempre più l'occasione di esercitare sui suoi concittadini quell'influenza salutare che per tanto tempo la sua esperienza e il suo carattere gli avevano mantenuto. Il personale francese del gabinetto di Eugenio era geloso di lui. Più ancora del conte Méjean lo astiava un favorito del principe, Antonio Darnay, nominato, in uggia alla pubblica stima, Direttore generale delle Poste, e che non si peritava di abusare dell'ufficio suo per disuggellare le lettere e sorprendere i segreti dei cittadini.

      Melzi, troppo altiero per scendere ad avversarj così minori di lui, si limitava ad offrire al Vicerè i suoi consigli, sempre assennati, ma non sempre accolti con quella serietà di propositi con cui erano dati. Egli vedeva le condizioni del Regno farsi sempre più gravi e ne avvertiva il pericolo. Fin dal 1811, più di 250 aggressioni a mano armata sulle pubbliche vie, più di cento invasioni nelle case private, con assassinj e ferimenti, dimostravano a che debole filo tenesse la pubblica sicurezza, il sintomo ordinario da cui si può giudicare il pregio di un governo.

      Quando comincia la campagna di Russia, e il principe Eugenio deve partire per l'esercito, conducendo seco il fedele Méjean, le cure dello Stato ricadono forzatamente sulle spalle del Duca di Lodi, la cui corrispondenza col Vicerè e coll'Imperatore diventa più minuta e più frequente. E, quando giungono le prime notizie dell'immane disastro, che piomba nel lutto tante migliaja di famiglie italiane, Melzi non esita ad informare Eugenio della molta concitazione di animi che si manifesta a Milano e dell'avversione che comincia a destare una politica così spensieratamente ed ostinatamente guerriera.

      In cosiffatte circostanze, le preoccupazioni del Vicerè si rivolgevano alla Corona di Ferro, e scriveva a Melzi (il 7 novembre 1813) che “se si dovrà evacuare il territorio e ritirarsi a Torino, incarichi Pino di recarsi a Monza e trasportare in salvo la Corona ferrea.„ Poi, da Verona (il 27 novembre) risponde agli avvisi di Melzi una lettera piena di amarezza, quantunque non priva di alti sentimenti. “Sono abbastanza sicuro del mio carattere per garantire che quelli che non avranno ferito che me non avranno motivo d'accorgersi che io mi sovvenga dei loro torti… Io meritavo meglio di quello che ho ricevuto… mi rimarrà, ne son certo, la stima degli uomini che, come voi, hanno potuto e voluto valutare le mie intenzioni e giudicare le mie azioni. L'opinione di questi mi basta12.„

      Ma il vecchio uomo di Stato non s'illudeva più da assai tempo intorno alla crisi del sistema napoleonico. E invano l'imperatore gli scriveva da Parigi il 18 novembre (1813): “J'ai ici 800,000 hommes en mouvement et, quelque chose qui arrive, les Autrichiens ne resteront point maîtres de l'Italie13.„ Melzi accettava con rispettoso silenzio queste ultime confidenze del genio morente, ma non si lasciava avvolgere in quelle deliranti speranze.

      Sicchè il 1.º febbrajo 1814, il principe Eugenio, che fronteggiava sull'Adige le schiere nemiche, riceveva dal Gran Cancelliere una lettera grave, che conteneva gravi consigli. Lo scongiurava a differire il richiamo dei figli unici nella nuova coscrizione militare “pour calmer la douleur des nombreuses familles qui y sont interessés.„ Gli pareva che importasse “dans l'heure qu'il est„ di allontanare “tout sujet de desagrément autant qu'il est possible, et de ne pas laisser à l'ennemi l'occasion de se concilier l'affection du peuple, en exécutant lui quelques jours après ce que nous aurions pu executer quelques jours avant14.„ Soggiungeva il Melzi: “l'expérience des mois passés nous a prouvé que sur dix hommes qu'on appelle, il y en a six ou huit qui deviennent réfractaires et grossissent la masse des assassins„; tanta era già divenuta la ripugnanza del popolo al servigio militare e tanta già l'impotenza amministrativa a renderlo obbligatorio! Nè alle sole questioni militari si limitavano i suoi consigli, ma sentendo già profondo anche il malcontento finanziario, gli suggeriva di condonare parecchie quote non soddisfatte di un prestito forzato che alcuni mesi prima, dal suo quartier generale di Caldiero, il Vicerè aveva decretato, e che il Melzi affermava “malissimo basato fin dal principio.„ Fu inutile. Stimolato dalle pressioni dell'Imperatore, Eugenio metteva la sua forza nell'obbedirgli, nel racimolare ad ogni costo, per le ultime sue disperate campagne, armi, denari, soldati.

      Gli è in queste circostanze che avviene e si annuncia lo scroscio del sistema napoleonico. Desiderato da molti, previsto da pochi, questo scroscio è cagione per tutti di una incertezza che s'avvicina allo sgomento. S'era così avvezzi a girare intorno a quel sole! Il suo sparire dovette fare su quelle generazioni l'effetto che cagiona una caduta nel vuoto. Eppure l'Europa s'avanzava tutta in armi, accintasi a debellare un uomo; e le nazioni allibite non sapevano a chi confidarsi, tra quella fiumana di principi che, traendosi dietro un milione di soldati, parlavano un linguaggio novo di pace, di nazionalità, e quel colosso che si sprofondava in silenzio, guizzando lampi di gloria, tra le bufere scatenate dall'irrequieto suo genio.

      Fu verso la metà d'aprile che giunsero a Milano e in Lombardia le prime notizie dei risultati finali della campagna del 1814 e della capitolazione di Parigi. E sotto l'impulso di quella gran commozione cominciò subito a svolgersi un dramma politico, che doveva finire, dopo tre giorni, in una così turpe tragedia.

      Milano era rimasta, per la condizione delle cose, quasi priva di quelle forze complessive di governo che, nei momenti supremi, sono la guarentigia dell'ordine pubblico. I ministri erano uomini fiacchi, avvezzi alla continua e costante direzione che veniva da Parigi, incapaci di assumere responsabilità e iniziative pari alle nuove difficoltà. Le forze militari v'erano scarsissime e delle meno efficaci. Tutto l'esercito valido e validamente organizzato era stato naturalmente chiamato al campo sotto gli ordini del Vicerè. Al campo era il ministro della guerra, generale Fontanelli; e in Milano, oltre qualche drappello di dragoni e di veliti, erano rimasti i convalescenti, i picchetti di guardia e una quarantina di granatieri; più numerosa di tutti la Guardia Civica, forza equivoca ed oscillante nei giorni d'interno commovimento.

      Il Vicerè poi, costretto dalle mosse combinate degli Austriaci e di Murat, s'era ritirato lentamente dall'Isonzo all'Adige, dall'Adige al Mincio, e, ridottosi in Mantova, aveva, al primo annuncio della catastrofe di Parigi, conchiuso col maresciallo Bellegarde l'armistizio di Schiarino-Rizzino, che fu sottoscritto il 16 d'aprile. Di questa Convenzione militare Eugenio aveva comunicato le basi fondamentali al Gran Cancelliere fin dal dì prima. Gli aveva scritto che ciascun esercito avrebbe mantenute le proprie posizioni, e che due deputati avrebbero dovuto portare ai Sovrani Alleati l'espressione dei desiderj di indipendenza e di buon governo. Gli suggeriva d'incaricare Prina, Fontanelli o Testi di siffatta missione, e raccomandava ad ogni modo che si scegliessero fra rappresentanti appartenenti alle due sponde del Po. Si offriva, se i due deputati fossero passati per Mantova, di dar loro commendatizie per l'imperatore Francesco.

      Ma già fin dall'11 aprile i dispacci di Melzi rivelavano maggiori preoccupazioni e proponevano risoluzioni più radicali. Egli affermava necessario di convocare i Collegi Elettorali, far loro proclamare l'indipendenza del Regno, che, ratificata poi dal Senato, sarebbe divenuta una base forte e legale di riassetto politico anche in faccia alle potenze coalizzate15.

      Questa iniziativa, afferrata allora con vigore pari alla previdenza, avrebbe probabilmente evitata la crisi milanese e reso possibile il regno indipendente d'Eugenio. Differita, fu, – come sempre avviene – impugnata come arma efficace dagli avversarj, e al 20 aprile la petizione pubblica per la riunione dei Collegi Elettorali divenne il pretesto della rivoluzione. Il principe Eugenio portava forse all'eccesso un sentimento generoso,


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<p>12</p>

Archivio Melzi d'Eril.

<p>13</p>

Archivio Melzi.

<p>14</p>

Archivio Melzi.

<p>15</p>

Francesco Cusani, Storia di Milano, vol. II, cap. 35.