Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo

Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo


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esprimere a Bonaparte la preghiera dei rappresentanti italiani.

      Fu nella solenne adunanza del 26 gennajo che lo scioglimento politico si annunciò.

      La Consulta era completa. Il Primo Console v'intervenne come a seduta reale, accolto da grandi applausi, e andò a sedersi nella parte più elevata della sala, accompagnato dalla sua famiglia, dai ministri Talleyrand e Chaptal, da un gran numero di generali, da venti prefetti, da quattro consiglieri di Stato. Quando l'acclamato Presidente si alzò per parlare, nell'ampia sala non s'udiva un respiro. Si afferravano le parole, s'indagavano gl'intenti. Bonaparte parlò in lingua italiana, con pronuncia netta e vibrata. Il suo discorso, abilmente conciso e improntato di quella grandiosa semplicità che distingueva il suo dir pubblico, toccava delicatamente molte corde e ne trattava altre con aspra franchezza. Si vedeva ch'egli s'era ricordato di parlare ad Italiani, ma di parlare in mezzo a Francesi.

      Sulla questione capitale della Presidenza disse senza ambagi: “non ho trovato fra voi nessuno che avesse ancora abbastanza diritto sulla pubblica opinione, che fosse abbastanza superiore ad ogni spirito di località e che avesse resi tanto grandi servigi alla patria, da potergli affidare la carica di Presidente… mi sono quindi determinato ad aderire al vostro voto, e, finchè le stesse circostanze lo vorranno, io m'incaricherò del pensiero dei vostri affari.„

      Sul programma di governo, soggiungeva poi con sintesi sagace, e profonda: “voi non avete che leggi particolari ed avete bisogno di leggi generali; il vostro popolo non ha che costumi locali ed è necessario che acquisti costumi nazionali; voi finalmente non avete armate e le potenze che potrebbero diventar vostre nemiche ne hanno di molto forti… Ma voi avete tutto ciò che può produrlo; una popolazione numerosa, campagne fertili, e l'esempio che in tutte le circostanze vi ha dato il primo popolo dell'Europa.„

      Era difficile che tali parole, pronunciate in così straordinarie circostanze e da così straordinario oratore, non commovessero ad alto grado gli animi dei convenuti. Il discorso del Primo Console fu interrotto ad ogni periodo da clamorosi e vivissimi applausi. L'affetto della patria vibrava in tutti quei cuori. Li avvolgeva l'atmosfera della grandezza, il sentimento dell'avvenire. Parlarono il cittadino Mariani, il cittadino Prina, l'arcivescovo Codronchi. Si lessero gli articoli della Costituzione. Si aspettava con ansietà la proclamazione del nome del Vicepresidente che, in forza dell'art. 49, Titolo VIII, era di libera ed assoluta scelta del Presidente. Il Primo Console, con una di quelle mosse efficaci, di cui possedeva il segreto, levossi, chiamò a sè il conte Melzi, lo abbracciò e lo collocò a sedere al suo fianco; poi, presolo per la mano, lo additò all'Assemblea come quegli in cui riponeva piena fiducia e lo proclamò Vicepresidente della Repubblica Italiana. Il nome dell'uomo e il nome dello Stato accrebbero gli entusiasmi; qualche memoria del tempo pretende perfino che gli applausi al Melzi soverchiassero quelli dedicati a Bonaparte. Ad ogni modo il Primo Console poteva essere contento dell'opera sua. Aveva reso tutti contenti. Non gli doveva accader più nel corso successivo della sua meravigliosa carriera.

      Francesco Melzi aveva quarantotto anni allorchè assumeva così alto incarico di governo frammezzo a così alte difficoltà. Avrebbe potuto dirsi nella pienezza delle sue facoltà morali e fisiche, se queste ultime non avessero già cominciato ad essere offese da frequenti attacchi di gotta.

      Figlio del conte Gaspare e di Teresa d'Eril, damigella spagnuola del seguito della governatrice Rosa di Harrach, aveva appena 21 anni, quando Maria Teresa lo nominò fra i decurioni municipali, tratta dalla grande riputazione che in paese s'era già levata di lui per l'ingegno pronto e l'amabile vivacità. Era stato educato, come la massima parte dei patrizj d'allora, in un collegio di gesuiti, a Modena; ed aveva dovuto resistere, con sagacia e volontà maggiore degli anni, alle pressioni ed alle seduzioni di quei terribili educatori, che, indovinando le forti qualità del loro allievo, avevano concepita la speranza di chiuderlo nel loro bruno sodalizio.

      Nella gioventù milanese ottenne presto quella prevalenza che non isfugge all'ingegno, soprattutto quando è sorretto dalla ricchezza. Era l'idolo delle riunioni gaje, l'oracolo delle adunanze pensose. Cognato di Pietro Verri, che aveva sposato in ultime nozze sua sorella Vincenza, era legato per mezzo suo a quel manipolo di preclari intelletti, che, ormai sul tramonto, si vedevano con soddisfazione rivivere in quel giovane forte, serio e gentile. Non era stato esente da un vizio, pur troppo caratteristico delle società eleganti, quello del giuoco; anzi vi si era abbandonato con una forza che ad alcuni amici pareva minacciosa pel suo avvenire. La nobiltà della sua indole doveva trionfare della bassa tentazione. Un giorno si trovava al verde, e si recò a chiedere duemila scudi in prestito ad un amico in cui riponeva grande fiducia. L'amico glieli rifiutò nettamente. “Sarebbero pochi„ gli rispose “pel conte Melzi; sono troppi per un giuocatore.„ Il giovane fu così tocco della severa risposta che abbandonò le bische e non giocò più.

      Auspicj femminili lo trassero dalla vita brillante e spensierata dei circoli cittadini, per avviarlo a più vasti orizzonti. Primeggiava allora fra le gentildonne milanesi la marchesa Paola Castiglioni, colta e gentile Egeria di ogni Numa dell'epoca, la cui riputazione di eleganza, di bellezza e di spirito, consacrata nei serali convegni, traversò due generazioni per giungere ancora intera e vivace fino a quella che immediatamente ci ha preceduti.

      Francesco Melzi, che allora chiamavano il contino, non era fra gli amici della marchesa il più trascurato. Anzi fu lui ch'essa volle compagno in un viaggio che intraprese in Francia; ed essa gli dischiuse l'ingresso in quelle celebrate riunioni parigine, dove, sotto la gonfia dottrina degli enciclopedisti, romoreggiavano i nuovi e minacciosi ardimenti degli uomini del terzo Stato. Fra quel meraviglioso turbinío di stranieri non si smarrì l'ingegno del Melzi, non ancora trentenne. Vi conobbe il D'Alembert, il Diderot, l'Helvetius, il Marmontel, il barone di Holbach, Vittorio Alfieri. Stette con loro come uomo a cui fosse famigliare qualunque forma di attività intellettuale. E non parve piccino fra quei giganti; tanto che madama di Stael, nelle sue Considerazioni sulla Rivoluzione Francese, ebbe a scrivere di lui: “non esserci stato mai uomo più distinto, neppure in Francia, pel sapore della conversazione, e nessuno averlo mai superato nell'arte di conoscere ed apprezzare tutti quelli che sostenevano una parte sulla scena politica.„

      L'indole tutta italiana del Melzi non si sformò al contatto dei ribollimenti francesi. Chè anzi grave materia di esperienza e di studio trasse egli dallo spettacolo vivo di quella nazione, fra cui si elaborava tanta mole di novità. E pur tenendo l'animo aperto alla seduzione per ciò che v'era in quei concetti di generoso e di grande, l'acuto senno ne misurava il pericolo e intravedeva già, dietro il fascino delle parole, la futura intemperanza delle cose.

      Innamoratosi dei viaggi e del largo osservare, dopo la Francia percorse la Spagna, il Portogallo, sopratutto l'Inghilterra, studiando ed annotando costumi, istituzioni, uomini, arti, paesi. Tornò, come cinquant'anni dopo il conte di Cavour, ammiratore della costituzione inglese, e convinto non essere possibile ad una nazione acquistare ordini e forze di libertà senza il beneficio principalissimo dell'indipendenza, cui egli giudicava fin d'allora doversi indirizzare il desiderio e lo sforzo di quanti amavano possedere, come le altre nazioni, una patria.

      Così, nudrito di fatti e di pensieri nuovi, che lo rendevano, per intelletto e per carattere, singolarmente idoneo a cose di Stato, Francesco Melzi aspettava gli eventi.

      Quando apparvero, soverchiando d'un tratto ogni argine di dottrina e di ragione, non si sgomentò. Resistette alla fiumana demagogica come doveva resistere più tardi al torrente del cesarismo. Ai giacobini fu subito in uggia perchè non si umiliava dinanzi a loro. Lo accusarono, nel loro stile barocco “di mettere il capo nel cielo e i piedi nell'inferno per essere nel centro degli affari4.„ Non era vero. Nessuno più del Melzi era schivo di chiedere ed assumere importanza politica. Più tardi fu anzi questo un difetto che il paese poteva a buon diritto rimproverargli. Ma allora come poi, dir male degli uomini virtuosi era pei viziosi il modo più sicuro e più spiccio di salire in grazia alle turbe e far loro dimenticare le proprie magagne. I malvagi strepitavano, il Melzi taceva; era una prova evidente del torto di quest'ultimo e della ragione dei primi. Così fu imprigionato, sbandito, richiamato.

      Non era però il Melzi tal uomo che dello sfregio a sè fatto tenesse broncio al paese. Onde, non appena la prevalenza degli uomini onesti cominciò a risorgere e seppe essere richiesti i suoi servigi, non pose tempo in mezzo a prestarli;


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Termometro politico, anno 1796.