Mezzo secolo di patriotismo. Bonfadini Romualdo

Mezzo secolo di patriotismo - Bonfadini Romualdo


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perciò non sapeva usarla nè contro le corruzioni dei politici indigeni, nè contro gli abusi e gli arbitrj dei comandanti militari francesi, Brune, Massena, Murat.

      Queste cause di male cominciarono subito a svolgersi con pessimi effetti, ed agli otto giorni di ordine e di lavoro che il Primo Console aveva così bene inaugurati seguirono venti mesi d'un governo fiacco, oscillante, senza prestigio e senza base; governo che se non potè dirsi affatto tristo, fu solo perchè due altri, di tanto peggiori, lo avevano preceduto.

      La Consulta legislativa diede bensì notevoli esempj di attività intelligente e feconda. Rimise in pieno vigore le leggi emanate durante il triennio, eccettuate però le leggi deplorabili di finanza e di culto. Revocò gli ordinamenti politici e i sequestri illegali ordinati durante i tredici mesi; mantenendo però i giudicati già eseguiti, le successioni già verificate, i pagamenti e i contratti fatti secondo le leggi pubblicate nel periodo intermedio. Era un sistema savio e liberale, soprattutto per tempi, in cui il cassare con un tratto di penna tutto un insieme di ordinamenti e di diritti acquisiti pareva l'inevitabile concetto legislativo sorgente da ogni mutamento di governo, da ogni predominar di fazione.

      I diritti civili furono poi subito argomento importante di studio per la Consulta. E dopo un solo anno si potè a buon conto pubblicare il Regolamento Giudiziario, unificazione salutare e progresso insperato sugli antichi sistemi, prevalenti nelle varie provincie del nuovo Stato, e anteriori per la massima parte alle stesse riforme prodotte dai libri del Filangieri e del Beccaria. Si pubblicò un'amnistia generale pei delitti politici, poi la legge 23 fiorile, anno 9.º sull'ordinamento amministrativo e territoriale della Repubblica. I provvedimenti militari furono spinti colla massima alacrità. Legge sulla guardia nazionale, legge sulla gendarmeria nazionale, legge sull'ampliamento della scuola militare di Modena; e finalmente la legge 8 brumale sulla coscrizione militare, novità ardita e non subito apprezzata dalle moltitudini, avvezze fino allora a vedere nella milizia o lo stromento di una tirannia straniera o il triste rifugio degli infingardi e dei mercenarj.

      Ma a questo primo ripiglio dell'iniziativa italiana nell'opera riformatrice, non corrispondeva, anzi contrastava acremente l'azione del potere esecutivo.

      Questo a poco a poco s'era venuto restringendo in mano agli elementi più inetti. Il Melzi rifiutava ostinatamente di farne parte, per manifesta sfiducia dei precarj ordinamenti, e continuava anzi a restare in Ispagna, donde non si decise ad uscire se non pei replicati inviti del Primo Console che lo volle a Parigi. A Parigi stava pure l'Aldini, inviato per trattare riduzioni di tributi e repressioni di angherie militari. Priva dei due intelletti maggiori, delle due esperienze politiche più consumate, il potere esecutivo lombardo andò a tentoni, finchè un decreto del plenipotenziario Petiet mutò ad un tratto la Commissione esecutiva in Comitato di Governo e lo compose di tre soli fra gli antichi commissarj, un Ruga, Francesco Visconti-Ajmi, e Gio. Battista Sommariva, di Lodi.

      Giusto era forse il concetto di rendere meno numeroso il Consiglio esecutivo, ma ne guastò affatto i risultati la scelta infelice degli uomini, dovuta alle peggiori influenze da cui il Primo Console non seppe quella volta abbastanza schermirsi.

      Francesco Visconti non era per verità uomo disonesto, e abbandonò il potere appena vide che i suoi colleghi ne facevano stromento di corruzioni. Ma per l'alta carica non aveva titoli sufficienti d'ingegno; forse dovettero parer tali al generale Berthier, influentissimo presso Bonaparte, e che, più costante del suo padrone, continuava a considerare la contessa Visconti come l'ideale della bellezza italiana.

      Il Ruga, portato egli pure da influenze femminili, ebbe meno scrupoli del suo collega, e quando uscì dal governo era dieci volte più ricco che quando v'entrò.

      Ma chi passò ogni misura di scandali nel salire, nel restare e nello scendere dal potere fu Gio. Battista Sommariva, che, impersonando in sè stesso il triumvirato, adunò anche sul proprio capo tutta la responsabilità di quella malaugurata amministrazione.

      Nato barbiere e fattosi, per sorprese di tempi, avvocato, s'era buttato nel moto politico, imbrancandosi naturalmente fra i gruppi più romorosi e più estremi. Per influenza della Società popolare era stato nominato segretario generale del Direttorio cisalpino, ed esercitava così sugli ordini di governo una specie di sindacato costante, in nome e per gl'interessi della democrazia scapigliata.

      Al sopraggiungere degli Austro-Russi, il Sommariva era corso a Parigi, e lì s'era accostato a tutti gli elementi equivoci della gran Babilonia, s'era perfezionato nella conoscenza dell'intrigo, nel maneggio degli uomini e nei segreti della corruzione. Così aveva ottenuto la confidenza e l'appoggio di alcuni fra i più alti personaggi del tempo, fra gli altri del Talleyrand e del generale Murat, che non erano troppo schifiltosi sulle qualità morali dei loro amici.

      Forte di queste aderenze parigine e di quella furberia che ai mestatori tien luogo sempre d'ingegno, spadroneggiò presto nel Comitato di Governo; ostentò apparenze moderate e lasciò le briglie sul collo a' suoi antichi amici, perchè facessero rivivere le ire e le mascherate del triennio; parlava linguaggio pomposo d'indipendenza, ma ai generali francesi, protettori e complici suoi, accordava ogni più insana domanda: governò male insomma per cinica risoluzione, sapendo che soltanto dal malgoverno possono i cattivi cittadini trarre impunità e occasioni di turpi lucri.

      Così dal centro partiva la corruzione e intorno al centro si allargava. Egli aveva segreti legami d'affari con un banchiere Marietti e con un giojelliere ebreo, Formiggini; i quali scontavano al 40 per 100 i boni rilasciati dallo stesso Sommariva per somministrazioni e per debiti dello Stato.

      Mentre a Parigi l'Aldini e il Serbelloni trattavano col Primo Console per ridurre a due milioni mensili la contribuzione militare della Repubblica, il Sommariva la stipulava con Petiet e con Murat in una cifra di 2,700,000 lire. Si moltiplicarono misure finanziarie repentine e rovinose; vendite di beni demaniali, lotterie, imposizioni di guerra, prestiti sulle famiglie più ricche, senza criterj direttivi, senza guarentigie di pubblicità; veri agguati notturni, da cui le popolazioni uscivano impoverite e i governanti arricchiti. Il ministro della guerra, Pietro Teulié, avvocato milanese, datosi per inclinazione alle armi e divenuto uno dei generali più valenti dell'esercito napoleonico, aveva dovuto dimettersi per la sua resistenza agli avidi appaltatori militari, che il capo del governo, per solidarietà d'affari, turpemente proteggeva.

      Si può pensare che conseguenze dovesse produrre siffatto indirizzo governativo. Tutti ne abusavano, a seconda dei loro istinti, di prepotenza, di vaniloquio o di avidità. Brune e Massena avevano ricominciato le loro estorsioni; il generale Miollis faceva rizzare un albero di libertà e diceva che questo avrebbe fatto rivivere le virtù, le scienze, le belle lettere e le arti. Il generale Varrin si faceva sborsare 440 lire al giorno pel suo pranzo; chiedeva approvvigionamenti anticipati pel doppio della forza che aveva sotto le armi; lacerava in faccia al presidente dell'amministrazione provinciale i documenti che questi allegava a sostegno delle sue ragioni.

      Questa situazione non era ignota al Primo Console, a cui denunciavano fatti e chiedevano provvedimenti Paolo Greppi, Ferdinando Marescalchi, Antonio Aldini. E a quest'ultimo rispondeva Bonaparte: “So che laggiù le cose vanno molto male; non si commettono che bestialità e si ruba a precipizio. Quella è gente nata in uno stato mediocre, che si è messa in testa di fare una gran fortuna, profittando del posto… Scrivete loro ch'io so bene tutte le loro bricconate e che creerò una Commissione per esaminarle.„

      Ma intanto le altre cure del vasto Stato assorbivano il vasto intelletto; e il Sommariva, corazzato contro ogni severità di parole, continuava ad accrescere, coi metodi di corruzione, i complici d'oggi, che sperava potessero diventare gli ajuti dell'indomani. Lasciava quindi sempre maggiore libertà alle passioni, impunità maggiore ai disordini. I liberatori si atteggiavano da capo a conquistatori; e Carlo Porta flagellava di profondi sarcasmi i facili trionfi cittadini della milizia francese.

      Onde Francesco Melzi, che conosceva i suoi paesi e i suoi tempi, scriveva al Primo Console, parlando dei Russi: “ils seront bien plus tôt oubliés que les Français; celui qui opprime et qui tue brutalement blesse encore moins que celui qui humilie.„ E infatti erano ricominciate le vendette personali. L'ajutante generale Hector, nel traversare piazza Fontana, veniva colpito da coltello al cuore; altri ufficiali subivano qua e là dal ferro notturno dei popolani la conseguenza dei rancori politici o più verosimilmente la pena di galanti misfatti. Il paese insomma era travagliato


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