Storia degli Esseni. Benamozegh Elia

Storia degli Esseni - Benamozegh Elia


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fatto nostro, erano come legittimi e diretti successori considerati degli antichi Recabiti. Potete dire che queste cose si trovano certo per vie non troppo comuni e battute, ma non per questo men belle e men importanti; potete dire che se ai grandi intelletti è dato scoprire nei cieli immensi un astro novello, al mio umilissimo quest’onore solo fu conceduto di scuoprire nel cielo Ebraico la società degli Esseni. Io dissi la Mehilta. Ma che cosa è la Mehilta? È un opera più antica del Talmud, opera di un Tanna antichissimo, di R. Ismael, opera di cui solo una parte è giunta sino a noi sul libro dell’Esodo. Aprite la Mehilta alla sezione di Jetro e vi troverete, come dice Vico, un luogo d’oro che suona così. Avvenne una volta che uno di coloro che beono acqua avendo fatto nel tempio un sacrifizio si udì una voce dal santissimo che diceva così, colui che accettò i loro sacrifizi nel deserto accetterà anche questo in quest’ora.

      E notatelo bene, giovani miei, queste parole non sono isolate; il passo che avete udito non è senza precedenti e conseguenti. Lo precedono immediatamente tutte le indicazioni da voi udite sui Cheniti che abitavano pei deserti, che tolsero poi a dimorare presso Iahbez nel deserto di Giuda, e lo seguono immediatamente le parole di Geremia sui Recabiti, sul loro avvenire. Il fatto che udiste narrato è un fatto ai Dottori contemporaneo, è una allusione agli Esseni allora esistenti, è una identificazione di questi Esseni coi Cheniti, coi Recabiti; è insomma tutto quello di che noi bisogniamo. Questo breve frammento è un prezioso e grande trovato; ma non è il solo. Quando meglio ci addentreremo nella società degli Esseni, uno o due altri ne rinverremo ove non più colla perifrasi testè udita i bevitori di acqua si additano gli Esseni, ma colla vera e propria loro denominazione. Questi pochi e sparsi frammenti sono il più bel gioiello delle nostre conferenze; e se io ne ho potuto adornare le mie lezioni, a voi si deve in gran parte che a queste indagini rivolgeste l’animo mio; e sopratutto a quel padre dei lumi senza di cui niuna cosa che valga si può fare in niuna disciplina, e molto meno nel culto delle lettere sacre, ove prima condizione è il culto e la stima del suo grandissimo obbietto, e nelle quali meglio che in niuna altra cosa si può dire con Petrarca:

      Non si fa ben per uom quel che il ciel nega.

      LEZIONE DECIMAPRIMA

      Io vengo a proseguire l’opera incominciata. Noi abbiamo degli Esseni studiato già e il nome e quello che più c’interessava, l’origine loro. Noi abbiamo, a parer mio, trovato in mezzo a tante etimologie la vera etimologia, e tralle tante congetturate origini la vera origine. Per svolgere ordinatamente il nostro assunto conviene che io vi riduca a memoria il piano, l’ordine, la seguenza che imponemmo al nostro dire. Io vi promisi sin dalla prima lezione che dopo il nome, dopo l’origine degli Esseni noi avremmo preso ad esame la loro costituzione, le loro leggi, le lor sociali discipline; e le loro costituzioni, leggi e discipline formeranno oggi il soggetto che io prenderò a trattare. Egli è naturale che dopo avere conosciuta per nome la cosa che vogliamo studiare, se ne cerchino le leggi costitutive, le leggi che presiedono, che regolano la sua esistenza. L’Essenato è persona, persona sociale, collettiva, morale, certamente, ma pur persona. Noi sappiamo come si chiama, sappiamo d’onde tratto si abbia il nascimento; che ci resta ora a sapere? Le leggi della sua esistenza, i principii regolatori della sua associazione. Però, vi ha uno studio che deve per sua natura andare innanzi alle cose accennate, ed è lo studio, ed è l’esame del teatro in cui sorse, in cui ebbe stanza il grande Essenato, in cui scelse, in cui fermò la sua residenza. In questa guisa, procedendo noi dalle cose, dalle circostanze più generali a quelle più proprie, più intime, più speciali al grande istituto; andremo sempre più intorno ad esso stringendo il cerchio delle indagini nostre: in questa guisa potremo dire che nulla di quello ci può sfuggire che può per diretto o indiretto riguardare l’Essenica associazione.

      Qual è dunque il teatro in cui nacque, in cui crebbe, in cui ebbe vita il grande Istituto? Notate, o miei giovani, che io non chiedo la loro patria. La loro patria è conosciuta, e questa è la Palestina. Chiedo la loro residenza, il loro soggiorno che dal concetto di patria molto come sapete è diverso. Lo chieggo in primo luogo a Filone siccome quello che tanto studio pose nella storia dei suoi cari, dei suoi ammirati Esseni. E che cosa mi risponde Filone? Mi risponde con un passo dell’opera sua, che se non coglie precisamente nel segno, pure non lascia di avere il suo valore e grande valore nella presente quistione. Egli addita gli Esseni ai suoi lettori Pagani, e se riscontrare, ei dice, volete la fedeltà della mia dipintura, mirateli ovunque sono diffusi pel grande, per l’immenso vostro impero; mirateli tra i Greci e tra i barbari, ove vivono dispersi. E così dicendo Filone, voi di leggeri comprenderete come venga a stabilire senza meno la loro universale diffusione non solo nell’Impero Romano ma eziandio al di là dei suoi confini, fra quei popoli che i Romani seguendo l’esempio dei Greci qualificavan col nome di Barbari: (cioè secondo la genuina sua significazione forestieri forse da vocabolo Arameo, siccome io da molti anni congetturai che suona uomo di fuori, gente straniera.) Gran parole son coteste di Filone e che compiono il concetto vero, storico degli Esseni qual ce lo aveva Plinio accennato nella sua storia. Plinio e Filone sono i due Restitutori del vero carattere della società degli Esseni. Plinio dove pone in sodo la loro antichità, dove, come udiste altra volta, gli assegna un’antichità di secoli e secoli, Filone in questo luogo dove sancisce, autentica la loro universalità, Plinio restaura l’Essenato nel tempo gli rende la sua antichità, Filone lo restaura nello spazio, cioè gli rende la sua universalità. Ma in qual guisa cotesta universalità, cotesta diffusione si acconcia al nostro Istituto? come a quelle idee che pure da parecchi storici si avvalora d’isolamento, di concentrazione, di particolarismo? Come a quel concetto sinora predominante che volle gli Esseni limitati, circoscritti ai confini Palestinesi? Come? intendendo pegli Esseni ciò che noi intendiamo, ciò che essi son veramente, ciò che sarà continuamente dimostrato dal corso di questi studi. Intendendo cioè per Esseni la parte più alta, più nobile, più dotta, più spirituale del Farisato pel quale veramente e pel quale soltanto è vera alla lettera la sentenza Filoniana; pei quali, e pei quali soltanto, si poteva dire che sparsi, che diffusi, vivevano tra Barbari e Greci. Il poteva Filone se gli Esseni fossero diversa scuola, diverso Istituto da quel Farisaico? Poteva dire per essi che eran diffusi tra Barbari e Greci; poteva dirlo di fronte al silenzio generale, al silenzio specialmente di Plinio, e di fronte infine all’esempio degli altri settari i quali, vuoi pel numero scarso, vuoi per poca virtù espansiva, se ne vissero sempre ristretti, rannicchiati tra i patrii confini? Ma quanto bene poteva dirlo se gli Esseni non sono altro che il più bel fiore che il patriziato dei Farisei! Quanto appropriate per essi le parole tra i Barbari e Greci! Essi col grand’Illel in Babilonia anzichè in Palestina non emigrasse, e essi in Damasco con Rabbi Iose il Damasceno; essi in Egitto con Filone stesso, coi Terapeuti e coi Dottori Egiziani che figurano nella Misna come Anael l’Egiziano, e con quelli che ivi stesso si narrano pellegrinanti in Egitto; essi in Nisibi in Persia con R. Ieuda ben Betera che è il discendente di quegli Eroici Betera che allo straniero Illel cessero la posseduta dignità di Nasi, solo perchè più d’essi erasi mostrato nelle patrie leggi erudito; essi in Media con Nahum il Medo; essi in Arabia, in Grecia e in Italia con Ribbi Akibà che queste regioni visitò e che lascio ricordate; ed essi nell’Asia minore in Laodicea, in Antiochia, in Assia dove traevano, come altra volta vi dissi, a sedere in concilio, e dove morì il grande Rabbi Meir, come più tardi vedremo; essi nelle Gallie non solo col rammentato Rabbi Akibà che ne ricorda i paesi, i costumi, la lingua, ma anche con Dottori, dalle Gallie denominati demin gallià; ed essi infine in Roma. In Roma non solo colla sinagoga già lungo tempo stabilitavi, non solo coi più celebri nostri Dottori che la visitarono e preziosissime indicazioni ne lasciarono scritte, ma principalmente per due tra essi, per due grandi Farisei che da Roma s’intitolarono e in Roma ebbero stanza durevole e cattedra e maestrato. L’uno è Todos o Teodozio che il Talmud chiama Todos Is Romi, Teodozio il Romano, quel desso di cui si narra nel Talmud di Pesahim, come a ricordare forse il sacrifizio pasquale, istituito avesse tra i fratelli di Roma l’uso di cibarsi d’agnello arrostito nei vespri di Pasqua; quel desso a cui s’intimava, pena la scomunica, di cessare da quell’uso; quel desso che per animare i Fedeli al martirio soleva citar loro l’esempio dei Zefardehim Rane o Coccodrilli, che al cenno di Dio, comecchè irragionevoli fossero, si gettano nei forni ardenti del popolo Egiziano. L’altro poi è Rabbi Mattia ben Haras ch’ebbe seggio e cattedra in Roma e fu per lunghi anni


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