Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II. Elia Augusto

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II - Elia Augusto


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ai borbonici di marciare su Caserta – "Devono passare sui nostri corpi" aveva detto e gli assalti delle truppe regie, replicati ed accaniti, furono respinti ed infine i nemici furono posti in fuga.

      Gli atti di eroismo di Bixio, di Dezza, di Menotti Garibaldi, degno figlio del padre, e di tanti altri, fra i quali si distinse anche il tenente Venzo che con pochi de' suoi fugato il nemico s'impadroniva di un cannone, non possono descriversi: si comportò da valoroso il tenente Giorgi Tullio; venne proposto per la promozione e per la medaglia al valore il tenente Taglieri Antonio e si distinsero molti e molti altri nel fiero combattimento, che fu vinto colla punta della baionetta e con atti di vero eroismo.

      È degno di memoria onorata questo episodio; mentre si combatteva accanitamente in tutta la linea a S. Maria, a S. Angelo ed a Maddaloni, il maggiore Bronzetti con 270 dei nostri sosteneva a Castel Morrone l'urto di 3000 borbonici, respingendoli a varie riprese in ben dieci assalti; la maggior parte di quei bravi era caduta; invano gli ufficiali napoletani esortavano i superstiti ad arrendersi, facendo sapere che tanto valore sarebbe stato rispettato; Pilade Bronzetti resistette entro il castello finchè ebbe cartucce, e, quando queste vennero meno, i difensori di Castel Morrone vollero morire da eroi. Stretti come un sol uomo, tentarono aprirsi un varco colla baionetta tra le migliaia dei nemici; caddero quasi tutti; fu ferito a morte lo stesso eroico Bronzetti e i pochi non feriti vennero condotti prigionieri. Fra questi eroi sacrati alla morte, combatterono disperatamente il valorosissimo Mirri capitano ed i tenenti Matteo Renato Imbriani e Vincenzo Migliorini, che si guadagnarono la medaglia al valore militare e la promozione.

      Mentre Garibaldi co' suoi del quartiere generale si ritirava da S. Angelo, s'imbattè nei carabinieri genovesi che vollero fargli scorta; fatto l'alt per il rancio, e per un piccolo riposo di cui tutti sentivano il bisogno, venne al Generale l'avviso che una colonna di 5000 borbonici trovavasi a Caserta vecchia, pronta a piombare su Caserta, quartiere generale garibaldino. Mandate staffette per avvertire Sirtori che era a Caserta e Bixio a Maddaloni, egli coi carabinieri genovesi e con altre forze, che potè avere sotto mano, si mise subito in marcia, prendendo la via della montagna. I nemici si erano mossi su Caserta ove trovavano Sirtori che li ricevette vigorosamente; e, sorpresi ai fianchi ed alle spalle dalle forze di Bixio e da quelle condotte da Garibaldi, dopo poca resistenza furono fatti prigionieri.

      La vittoria del Volturno del 1 e 2 ottobre aveva tolto ai borbonici ogni possibilità di rivincita; rinchiusi nelle fortezze di Capua e Gaeta non avevano altro scampo, che una resa più o meno lontana.

      Però un pensiero crucciava Garibaldi. Esso diceva con gli amici nei brevi momenti di riposo al quartier generale di Caserta: "Il primo ottobre abbiamo sconfitto il nemico a tal punto, che non sarà più in grado di affrontarci; ma non posso andare a Roma, lasciando addietro 40,000 uomini trincerati in due fortezze: essi si riprenderebbero Napoli, quando io coi miei non fossimo qui a difenderla".

      A distoglierlo da cotali pensieri era avvenuto un fatto politicamente assai importante.

      CAPITOLO XX

Liberazione dell'Umbria e delle Marche Castelfidardo-Ancona

      Decisa l'occupazione delle Marche e dell'Umbria da parte delle truppe Piemontesi, il Conte di Cavour ne dava avviso con sua nota del 7 settembre 1860 al Cardinale Antonelli nella quale si diceva: Che il governo Sardo era dovuto venire in quella determinazione perchè "la coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permetteva di rimanersi testimone impassibile delle sanguinose repressioni con cui le armi dei mercenari stranieri al soldo del governo papale, soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione del sentimento nazionale. Niun governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese civile.

      "Per questi motivi dopo aver chiesti gli ordini di S. Maestà il Re mio Augusto Sovrano, ho l'onore di significare a Vostra Eminenza che truppe del Re hanno incarico d'impedire, in nome dell'umanità, che i corpi mercenari pontificii reprimano colla violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria.

      "Ho inoltre l'onore d'invitare Vostra Eminenza, per i motivi sopra espressi, a dare l'ordine di disarmare e di sciogliere quei corpi, la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità dell'Italia.

      "Nella fiducia che V. Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal governo di S. Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle gli atti dell'alta mia considerazione.

Firmato: C. Cavour"

      Sciogliere l'esercito sarebbe stato lo stesso che aprire le porte alla rivoluzione; il governo pontificio dovette scegliere la guerra.

      Dopo la giornata del 1859 nella quale le truppe pontificie comandate dal generale Schmidt espugnarono Perugia commettendovi fatti atroci, Cortona era divenuta il centro dei nuovi preparativi insurrezionali nel limitrofo Stato romano. Emigrati perugini, come il Danzetta, il conte Ansidei, il Pompili ed il Massarucci vi avevano preso stanza e vi tenevano adunanze di patrioti; v'interveniva anche il Gualterio che aveva preso parte al movimento del 27 aprile in Toscana. Questi, assieme al Diligenti, si recava a Torino dal conte di Cavour per stabilire accordi per una prossima sollevazione dell'Umbria.

      Gli accordi furono questi: il Danzetta ed il Massarucci con altri patrioti ed amici dovevano preparare una sollevazione nel punto che essi avessero creduto il migliore per l'8 o 9 di settembre. Il Diligenti venne incaricato di intendersi coi patrioti Toscani vicini alla frontiera perchè si riunissero in armi a Chiusi il giorno 7 e di là corressero a prestare man forte ai sollevati dell'Umbria; il Diligenti per questo s'intese anche coi liberali livornesi e tutto era stabilito.

      Cento patrioti dell'eroica città di Perugia, dei quali erano capi Ugolini conte Galeazzo e Manni Gaetano, uscirono dalla città, si diressero all'osteria dell'Ellera, poco distante, ove trovarono ordine di recarsi a Chiusi per concretare le operazioni da farsi; durante il cammino incontrarono una squadra di gendarmi, impegnarono la lotta, ne uccisero alcuni e fecero gli altri prigionieri.

      A Todi ed a Terni altri patrioti dei quali era alla testa il conte Alceo Massarucci erano pronti pel movimento; e l'8 di settembre i patrioti che il Massarucci aveva radunati si mettevano in marcia; erano circa 400 mandati dal Massarucci, dal Theodoli Mario, da Baldoni Giuseppe, e da Colacicchi di Todi; luogo di convegno era l'altura di Allerona; vi arrivarono alle 11 della notte del 9 ove trovarono i volontari condotti dal Danzetti e dal Bruschi. A Chiusi aveva preso il comando di altri 300 volontari, il colonnello Masi e ne aveva formata la legione alla quale aveva dato il nome dei Cacciatori del Tevere. Partito il Masi da Chiusi si diresse su Città della Pieve, ove nominava un governo provvisorio. Giungevano da Chiusi altri 150 volontari condotti dal capitano Giuseppe Baldini. Il giorno 10 il colonnello Masi, arrivava al convento di S. Lorenzo ove erano adunati i volontari dell'Umbria e prendeva il comando del corpo di circa mille uomini.

      Fu deciso di marciare su Orvieto e, colle intelligenze che si avevano nell'interno, impadronirsi della città di notte e di sorpresa. Il colonnello riunita la colonna nel piazzale del convento di S. Lorenzo, con voce vibrata disse parole patriottiche agli adunati chiedendo a tutti abnegazione e valore; tutti lo giurarono. Divise quindi le forze in due colonne, una la prese con sè e si diresse al nord della città d'Orvieto, con la speranza che gli amici interni gli aprissero la porta da quel lato della città come era convenuto, l'altra colonna sotto il comando del capitano Liborio Salvatori si diresse dalla parte sud della città, su quel cono di tufo alto ed inaccessibile, nel mezzo della spianata del quale sorgono le mura dell'antica Orvieto.

      Erasi convenuto con i liberali orvietani che verso la mezzanotte avrebbero fatto scendere una scala di corda per la quale i volontari da fuori sarebbero ascesi sulle mura. All'ora stabilita la scala era al posto; primo a montarvi fu il coraggioso Delbontromboni Giovanni di Crevalcore, già caporale dei finanzieri pontifici; altri lo seguirono; nel salire assai faticoso, disgrazia volle che i fucili di quei bravi urtassero e facessero rumore; già il bravo Delbontromboni stava per arrampicarsi sulla sommità delle mura, quando una voce gridò; "Chi vive?" alla risposta "Roma" seguì una detonazione che fu susseguita da altre; la scala venne abbandonata da coloro che la tenevano e i volontari che vi erano saliti, sbattendo violentemente contro il tufo, precipitarono nel fossato. Il tentativo era fallito e la colonna dovette ritirarsi a S. Lorenzo, ove prima del giorno faceva pur ritorno il colonnello Masi, essendogli fallito anche il tentativo dell'apertura della


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