Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II. Elia Augusto

Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II - Elia Augusto


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che non hanno indipendenza da conquistare.

      "Con tale esercito l'Italia non avrà più bisogno di padroni stranieri, che se la mangiano a poco a poco col pretesto di liberarla.

      "Che ovunque sono italiani che combattono oppressori, fa bisogno spingere gli animosi e provvederli del necessario per il viaggio.

      "Che l'insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutare, ma dovunque sono nemici da combattere.

      "Io non consigliai il moto della Sicilia, ma venuti alle mani quei fratelli nostri, io ho creduto obbligo di aiutarli.

      "Il nostro grido di guerra sarà Italia e Vittorio Emanuele e spero, che anche questa volta, la bandiera italiana non riceverà sfregio.

Vostro con affettoG. Garibaldi"

      Altra lettera aveva già diretta il giorno innanzi al Re Vittorio Emanuele:

Genova, 4 maggio 1860

      Sire,

      "Il grido d'affanno, che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d'armi. Io non ho consigliato il movimento insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia, ma dal momento che essi si sono sollevati a nome dell'unità italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannia dell'epoca nostra, non ho esitato di mettermi alla testa della spedizione. So bene, che m'imbarco per un'impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella devozione dei miei compagni.

      "Il nostro grido di guerra sarà sempre "Viva l'Unità Italiana!" "Viva Vittorio Emanuele, suo primo e più bravo soldato!"

      "Se noi falliremo, spero che l'Italia e l'Europa liberale, non dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi, puri affatto da egoismo, ed interamente patriottici.

      "Se riusciremo, sarò superbo di ornare la Corona di Vostra Maestà di questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia, che Vostra Maestà si opponga a ciò che i di Lei consiglieri cedano questa Provincia allo straniero, come hanno fatto della mia terra natale.

      "Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà; temevo infatti, che per la reverenza che Le professo, Vostra Maestà non riuscisse a persuadermi d'abbandonarla.

      "Di V. Maestà, Sire, il più devoto suddito

G. Garibaldi"

      Ed all'esercito scriveva così:

      Soldati Italiani,

      "Per alcuni secoli la discordia e l'indisciplina furono sorgenti di grande sciagure pel nostro paese. Oggi è mirabile la concordia che anima le popolazioni tutte dalla Sicilia alle Alpi. Però di disciplina difetta ancora, e su di voi, che sì mirabile esempio ne deste e di valore, essa conta per riordinarsi e compatta presentarsi al cospetto di chi vuole manometterla. Non vi sbandate dunque, o giovani, resto delle patrie battaglie; sovvenitevi che anche nel settentrione abbiamo nemici e fratelli schiavi – e che le popolazioni del mezzogiorno, sbarazzate dai mercenari del Papa e del Borbone, abbisogneranno dell'ordinato vostro marziale insegnamento, per presentarsi a maggiori conflitti. —

      "Io raccomando dunque, in nome della patria rinascente, alla gioventù che fregia le file del prode esercito di non abbandonarle, ma di stringersi vieppiù ai loro valorosi ufficiali ed a Vittorio Emanuele, la di cui bravura può essere rallentata un momento dai pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria.

G. Garibaldi"

      La mattina del 7 maggio i due piroscafi andarono ad ancorare a Talamone, a breve tratto dal porto S. Stefano e della fortezza di Orbetello. Garibaldi, sceso a terra, vestito da generale del 1859, ottenne dal comandante del luogo tutto quello che gli occorreva, limitatamente alla possibilità sua; così si ebbe un piccolo numero di fucili arrugginiti ed una vecchia colubrina. Saputo dal comandante di Talamone, che nel forte di Orbetello sì trovava altro armamento, il generale vi spediva il colonnello Türr con una sua lettera chiedente al colonnello Giorgini, comandante del forte, armi e munizioni. Verso sera giungeva col Türr, lo stesso comandante di Orbetello, il quale fatto persuaso dal Türr che la spedizione di Garibaldi era fatta sotto gli auspici del Re, aveva messo a disposizione del generale tutto quello che di armamento si trovava nel forte, e cioè quattro cannoni da sei con 1200 cariche, alcuni fucili, cartucce ecc. Dei quattro cannoni due erano col fusto, due senza.

      Una parte dello scopo era raggiunto, ma il generale approdando a Talamone aveva in animo un disegno molto più alto. Il pensiero, vagheggiato nel 1859 di una invasione nello Stato Pontificio per la Cattolica non era mai stato da lui dimenticato. Egli sperava che, data la spinta, sapendosi la Sicilia sollevata, una vasta sommossa avrebbe messo in fiamme la Penisola tutta; per cui, fatto chiamare a se il colonnello Zambianchi, gli affidava l'incarico d'invadere lo Stato Pontificio dalla parte di Orvieto, per promuovervi la rivoluzione. A tal uopo staccò dagli imbarcati una schiera di 60 prodi armati e consegnato al Zambianchi un manifesto pei Romani ed un foglio d'istruzioni, gli ordinò dì prepararsi alla partenza. Fra i tanti bravi che ebbero ordine di accompagnare il Zambianchi eranvi pure i cari compagni Guerzoni, Pittaluga e Galliano.

      Il manifesto diceva così:

      Romani,

      "Domani voi udirete dai preti di Lamoricière, che alcuni mussulmani hanno invaso il vostro terreno. Ebbene questi mussulmani sono gli stessi che si batterono per l'Italia a Montevideo, a Roma, in Lombardia! Quelli stessi che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio, quando giunga il giorno che la doppia tirannia dello straniero e del prete vi lasci la libertà del ricordo! Quelli stessi che piegarono per un momento davanti ai soldati agguerriti e numerosi di Bonaparte, ma piegarono colla fronte rivolta al nemico, ma col giuramento di tornare alla pugna, e con quello di non lasciare ai loro figli altro legato, altra eredità, che quella dell'odio all'oppressore ed ai vili!

      "Sì, questi miei compagni combatterono fuori delle vostre mura accanto a Manara, Melara, Masina, Daverio, Peralta, Panizzi, Ramorino, Mameli, Montaldi, e tanti vostri prodi che dormono presso alle vostre catacombe, ed ai quali voi stessi deste sepoltura perchè feriti per davanti.

      "I vostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, degli Orazi e dei Ferrucci; la nostra causa è la causa di tutti gli Italiani: il nostro grido di guerra è lo stesso che risuonò a Varese ed a Como "Italia e Vittorio Emanuele" e voi sapete che con noi, caduti o viventi, sarà illeso l'onore italiano.

G. Garibaldigenerale Romano, nominato da un governoeletto dal suffragio universale".

      Prima di partire da Talamone scriveva a Bertani così:

      Caro Bertani,

      "Nella notte della nostra partenza si smarrirono due barche che portavano le munizioni, i capellozzi, tutte le carabine e revolvers, 230 fucili ecc. Nel giorno seguente cercammo indarno tali barche per molte ore, e poi proseguimmo.

      "Qui abbiamo rimediato alle principali urgenze, grazie alla buona volontà delle autorità di Orbetello e di queste.

      "Fra poco avrete altre notizie di noi.

      "Frattanto fate ritirare tutti gli oggetti suddetti.

      "Con affetto.

      "Talamone, 8 maggio

Vostro: G. Garibaldi

      Poi perchè nessuno dovesse aver danno in causa della presa di possesso dei due vapori "Piemonte" e "Lombardo" mandava a Genova la seguente lettera:

      Ai Signori Direttori dei Vapori Nazionali

      Signori,

      "Dovendo imprendere un'operazione in favore d'italiani militanti per la causa della patria, di cui il governo non può occuparsi per diplomatiche considerazioni, ho dovuto impadronirmi di due vapori dell'amministrazione dalle LL. SS. diretta e farlo all'insaputa del governo stesso e di tutti.

      "Io attuai un atto di violenza: ma comunque vadano le cose io spero che il mio procedimento sarà giustificato dalla santa causa da noi servita e che il paese intero vorrà riconoscere come debito suo da soddisfare, i danni da me recati all'amministrazione.

      "Quandochè


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