Oltre Il Limite Della Legalità. Alessandro Ziliotto

Oltre Il Limite Della Legalità - Alessandro  Ziliotto


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miliardi di raggi solari che perforavano quel dannato minerale del quale era composta, rovinando la giornata a un poveraccio che desiderava solamente riposare in pace cullato dal suo mal di testa e dalla sbornia non ancora smaltita. Visto che oramai mi trovavo in piedi e molti metodi per coprire quella dannata finestra non c’erano, se non spegnere il sole, mi avvicinai al vetro per capire almeno se riuscivo a comprendere dove mi trovavo. Ai miei primi passi risposero delle monete che caddero a terra, procurando un fastidioso rumore metallico che tanto odiavo, anche perché: che diavolo me ne facevo di pochi spiccioli? Arrivato nei pressi di una colonna, mi appoggiai per avere un po’ di sostegno, considerato che la testa continuava a girarmi alla velocità di una trottola. Con l’avambraccio posato al supporto e la fronte spiaccicataci sopra, cercavo di rimanere in piedi. La situazione era alquanto difficile. Per un attimo avevo chiuso gli occhi, quando lì riaprii per non scivolare a terra, mi trovai a tu per tu con il musetto di un topo, il quale sbucava da un foro presente sulla colonna. A risposta del suo simpatico squittio, gli vomitai addosso. Non avevo avuto nemmeno il tempo di pensare o focalizzare che cosa stava accadendo, che quello stimolo mi venne naturale, imbrattando lui e la sua povera tana. Non curante di quella sporca creatura, proseguii il mio duro cammino sino alla destinazione prefissata, sebbene con non poche difficoltà. Arrivato al balcone della finestra, mi c’ero appoggiato di peso, quasi avessi fatto una maratona e quello era l’arrivo; avevo sete, una dannata sete. Forse non avevo bevuto abbastanza la sera precedente, pensai. Accennai nuovamente un sorriso, che venne subito placato da un’altra colata di vomito. Una fitta mi prese alla pancia e come un ventaglio mi piegai in due dal dolore, quasi fossi un adolescente alla sua prima sbornia; ma che diavolo avevo mai bevuto per ridurmi in quelle condizioni? Non me lo ricordavo proprio, anche se oramai sarebbe stato alquanto superfluo scoprirlo. Grazie a Dio le fitte erano terminate, cercai quindi di riprendere il controllo del mio corpo, sebbene ero consapevole che fosse impossibile. Mi riaffacciai comunque alla finestra e cercando di guardare fuori, involontariamente andai a sbattere con il viso contro la lastra di vetro. Quest’ultima aveva una patina d’unto mista polvere; una schifezza che mi si era spiaccicata addosso. Cercai di esercitare una leggera forza sulla maniglia, ma di primo acchito, oltre a vederla leggermente arrugginita, compresi che con le energie che possedevo in quel momento non sarei mai riuscito ad aprirla. Mi guardai un po’ intorno cercando di capire dove mi trovavo; inizialmente quel luogo ampio e vuoto, sembrava l’interno di una fabbrica abbandonata, non mi era molto famigliare, e le decine di colonne portanti, non m’aiutavano a capire di che posto si trattasse, sebbene fossero ricoperte quasi completamente da dei graffiti grossolani, come del resto, lo erano anche parti delle pareti perimetrali. Il suo inutilizzo per mia fortuna, era palese, sebbene la ditta che aveva abbandonato quella struttura aveva accantonato diversi macchinari, in attesa di una nuova apertura, ipotizzai. Idea alquanto remota considerata la presenza di numerose bottiglie di vetro rotte, immondizia, un paio di materassi e pezzi di cartoni sistemati qua e là, con delle coperte lacerate posate sopra. Coinquilini pensai, sebbene la presenza di tutta quell’immondizia avrebbe facilitato l’arrivo dei parenti di quel roditore. Non ne comprendevo il motivo ma mi stava simpatico, tanto da battezzarlo topo Gigio vomitino. Una riflessione mi sfiorò la mente, per poi scivolare subito via: tutta quella situazione che stavo vivendo, la perdita del lavoro, il ritrovarmi a dormire in un edificio abbandonato, non era di certo il massimo della vita, però ero libero, senza alcun pensiero o preoccupazione, e nessun orario da rispettare o impegno al quale mi sarei dovuto presentare, libertà allo stato puro.

      Il dolore alla testa continuava ad aumentare e il momento d’affrontare il mondo esterno, per oggi, dal mio punto di vista, non era ancora arrivato. Barcollando ritornai al punto di partenza crollando a terra, non prima però d’aver racimolato un foglio di giornale da posare sopra il viso, riprendendo così a dormire, con la speranza che al risveglio le mie condizioni sarebbero state migliori.

      

      

      Non so per quanto tempo assecondai i miei sensi, anche se ipotizzavo per diverse ore, visto che scostando il foglio di giornale, la luce del giorno non filtrava più dalle finestre. Aprii gli occhi e a stento riuscii a vedere l’ambiente che mi circondava. Questa volta non era a causa della vista appannata, bensì del buio dal quale ero stato invaso nel sonno. Ad aiutarmi c’erano i fari delle autovetture che transitavano per le strade adiacenti al fabbricato, le quali con il loro riflesso, mi permettevano, sebbene a intermittenza, di conoscere il terreno sul quale avrei posato i piedi.

      Decisi quindi di rialzarmi e uscire da lì. Ora che guardavo intorno però un interrogativo mi giungeva naturale, ma dov’era l’uscita? Rimasi immobile a osservare, ma non riuscivo a individuarla. Il mal di testa andava lentamente scemando. La mente si era messa in moto ma il mondo leggermente sbiadito che mi circondava non m’aiutava per niente. Era come se stessi guardando un film degli anni settanta alla tv, e in tutto questo, nessun elemento riusciva a farmi individuare ciò che cercavo. M’avvicinai a quella che sembrava una porta, ma non appena provai ad azionarne la maniglia e a tirare verso di me, m’accorsi che era bloccata con una spessa catena aggrovigliata alle maniglie antipanico, ed un lucchetto a bloccarla. Provai con un’altra porta, ma la storia era sempre uguale. Mi ritrovai così a girovagare per la fabbrica in cerca di un’uscita. Passai vicino a quello che un tempo doveva essere stato un ufficio, o qualcosa predisposto per esserlo. Sembrava la classica stanza ricava all’interno di quell’immensa struttura per avere un po’ di tranquillità e conservare le scartoffie dell’azienda, senza ritrovarsele sparse per tutta la ditta. Passando accanto alla porta, i cui infissi erano stati divelti, mi accorsi che una tenue luce arancione illuminava il suo interno. Non si vedeva gran che, ma tanto bastava ai miei occhi per scovare un’apertura, magari la stessa dalla quale ero entrato. Una volta all’interno, cominciai a guardarmi un po’ intorno per scovare la fonte del chiarore. Le pareti laterali erano completamente intatte, prive di qualsiasi finestra. Trovandomi senza alternativa, alzai la testa, constatando che sul soffitto c’era un foro. Era stato fatto grossolanamente con un martello, considerati i margini tutt’altro che simmetrici e levigati. Da quel foro, che prendeva forma vicino alla parete laterale, vi era una scala di ferro, la quale permetteva l’accesso al piano superiore. Visto che i miei impegni per le prossime ore non erano così alettanti all’interno di quello stabile, illuminando il display del mio Casio nero anni ’90, comperato da un cinese a poco meno di dieci euro, controllai l’ora, 22.30, dopo di che mi avventurai su per quella scala, accedendo così al soffitto della stanza. Una volta raggiunto il tetto, mi trovai di fronte ad una finestra aperta, o meglio, i vetri erano stati rimossi dall’intelaiatura dell’infisso, e si poteva utilizzare questo difetto come accesso, visto che dava direttamente alla scala antincendio.

      Senza guardarmi molto intorno e senza pensarci più del dovuto, mi ritrovai in strada. E ora? Pensai. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più una meta, uno scopo, non sono più nessuno. Tutto quello che ero, non lo sono più. Tutta la mia vita sino ad ora era come se non l’avessi vissuta, come se fosse stata spazzata via da un uragano, senza preavviso e ringraziamento, ero solo, quasi fossi stato partorito da ventiquattro ore e buttato in mezzo alla strada senza nessuna guida o persona che si prendeva cura di me. Alcune macchine mi sfrecciavano accanto incuranti della mia presenza, presi dalla loro vita così all’apparenza perfetta e priva di pensieri, o almeno degni di essere chiamati tali. Ora che stavo meglio, mi era tornata la voglia di bere, di ridurmi uno straccio per far passare un’altra notte e un altro giorno. Lo avevo fatto per un mese e avevo voglia di rifarlo sino allo sfinimento, per ritrovarmi ogni mattina in quella dannata fabbrica e chiedermi come cazzo ero arrivato lì e cosa diavolo mi era accaduto. Alzai lo sguardo e un negozio di pakistani era lì a un centinaio di metri con le sue luci accese e i suoi alcolici. Cominciai a incamminarmi pregustando il bruciore dell’alcool nella bocca e nello stomaco. Infilai le mani nelle tasche per controllare quanti soldi avessi, ma ciò che trovai fu solo un fazzoletto di carta usato: nemmeno al tempo del baratto ci avrei ricavato qualche cosa. Come diavolo avrei fatto ora? Con cosa l’avrei pagato il rum? Non c’erano molte macchine parcheggiate per strada, sempre meglio che nessuna, pensai. Le controllai una a una, per verificare se qualcuna avesse la porta aperta o il finestrino abbassato di qualche centimetro, ma non ebbi molta fortuna, infatti mi ritrovai di fronte alla vetrina del negozio con pochi spiccioli in mano. Che cosa avrei fatto ora? E se fossi entrato e dopo aver preso quello che m’interessava me ne fossi andato a gambe levate senza pagare? Forse quel pakistano non mi avrebbe riconosciuto,


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