Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2. Джек Марс

Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2 - Джек Марс


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Poi fece lo stesso con il localizzatore. Aveva interrotto ogni collegamento con la superficie.

      L’Aegean Explorer poteva ancora vedere il Nereus sul sonar? Certo. Ma l’Explorer sapeva dove era il sommergibile. Di lì a poco, sarebbero spariti anche per la nave. Il Nereus era solo un minuscolo puntino in un vasto mare.

      A tutti gli effetti il sommergibile era invisibile.

      Reed Smith inspirò di nuovo a fondo. Quella doveva essere la trentesima volta che scendeva sotto la superficie marina in uno di quegli aggeggi, sia durante l’addestramento che nella vita reale, ma ancora non riusciva a farsene una ragione. Erano sprofondati di appena cinque metri e il mare era già diventato di un color blu brillante perché la luce del sole sopra la superficie si rifrangeva e veniva assorbita dall’acqua. Tra lo spettro dei colori il rosso veniva assorbito per primo, lasciando tutto il mondo subacqueo avvolto in un alone blu.

      Diventava sempre più blu e più scuro man mano che il veicolo affondava nell’acqua.

      “È bellissimo,” commentò Eric Davis alle sue spalle.

      “Sì, lo è,” replicò il pilota. “Non me ne stanco mai.”

      Si immersero nel blu fino a raggiungere un’oscurità profonda e buia. Tuttavia non era completa. Smith sapeva che una minuscola quantità di luce dalla superficie riusciva ancora a raggiungerli. Era il crepuscolo. Al di sotto, ancora più a fondo, c’era la mezzanotte.

      L’oscurità li avvolse. Il pilota non accese le luci, preferendo navigare solo con gli strumenti. In quel momento non c’era niente da vedere.

      Smith si permise di sonnecchiare. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Poi un altro. E un altro ancora. Si lasciò prendere dal suo doposbronza. Aveva un lavoro da fare, ma non era ancora il momento. Il pilota, Bolger, gli avrebbe detto quando avrebbe dovuto darsi da fare. Per un po’ poteva perdersi nei propri pensieri. Era una sensazione piacevole, poter ascoltare il brusio dei motori e l’occasionale mormorio dei due uomini nella capsula insieme a lui che facevano due chiacchiere su un argomento o un altro.

      Il tempo passò. Forse molto tempo.

      “Smith!” sibilò Bolger. “Smith! Sveglia.”

      Lui rispose senza aprire gli occhi. “Non sto dormendo. Siamo già arrivati?”

      “No. Abbiamo un problema.”

      L’uomo aprì di colpo gli occhi. Fu sorpreso di vedere l’oscurità quasi totale che li circondava. Le uniche luci venivano dal chiarore rosso e verde del pannello della strumentazione. Problema non era una parola che voleva sentire centinaia di metri sotto la superficie del Mar Nero.

      “Che cosa c’è?”

      Il dito grassottello di Bolger indicò lo schermo del sonar. C’era qualcosa di grosso, forse a tre chilometri a nord-ovest da loro. Se non era una balenottera azzurra, e quasi di certo non lo era, allora era un’imbarcazione di qualche tipo, probabilmente un sottomarino. E che Smith sapesse c’era solo un paese che avesse degli autentici sottomarini in quelle acque.

      “Ah, cazzo, perché hai acceso il sonar?”

      “Avevo una brutta sensazione,” disse Bolger. “Volevo assicurarmi che fossimo da soli.”

      “Beh, è chiaro che non lo siamo,” replicò lui. “E tu stai sbandierando la nostra presenza.”

      Bolger scosse il capo. “Sapevano che eravamo qui.” Puntò il dito verso due puntini più piccoli, dietro di loro verso sud. Poi ne indicò uno simile davanti a est, a meno di un chilometro di distanza. “Li vedi questi? Non è affatto buono. Stanno convergendo sulla nostra posizione.”

      Smith si passò una mano sulla testa. “Davis?”

      “Non è di mia competenza,” replicò l’uomo sul sedile posteriore. “Sono qui per salvare i vostri culi e affondare il sommergibile in caso di malfunzionamento del sistema o di errore del pilota. Non sono nella posizione per affrontare un nemico da qui. E a queste profondità non potrei aprire il portello neanche se volessi. Troppa pressione.”

      Smith annuì. “Già.” Si voltò verso il pilota. “Quanto manca all’obiettivo?”

      Bolger fece segno di no con la testa. “Troppo lontano.”

      “Al punto di incontro?”

      “Lasciamo perdere.”

      “Possiamo eluderli?”

      Il pilota scrollò le spalle. “Dentro questo coso? Suppongo che possiamo provare.”

      “Esegui una manovra evasiva,” stava per ordinargli Smith, ma non ne ebbe modo. All’improvviso, una luce brillante si accese di fronte a loro. L’effetto nella minuscola capsula fu accecante.

      “Gira il mezzo,” disse allora, coprendosi gli occhi. “Nemici.”

      Il pilota fece roteare di colpo il Nereus di trecentosessanta gradi. Prima di poter finire la manovra, un’altra luce accecante si accese alle loro spalle. Erano circondati, davanti e dietro, da sottomarini come il primo. Simili al loro, a parte che Smith riconosceva lo stile dei nemici. Erano stati progettati e costruiti negli anni ’60, durante l’epoca delle calcolatrici tascabili.

      Fece un sforzo per non sferrare un pugno sullo schermo davanti a sé. Maledizione! E per di più davanti a loro ce n’era uno più grosso, probabilmente un cacciatore.

      La missione, altamente classificata, sarebbe fallita. Ma non era quella la parte peggiore. Neanche lontanamente. La parte peggiore era la presenza di Reed Smith stesso. Non poteva farsi catturare, a nessun costo.

      “Davis, opzioni?”

      “Potremmo provare a scappare con il sommergibile,” disse Davis. “Ma personalmente gli lascerei prendere questo rottame e vivere per combattere un altro giorno.”

      Smith grugnì. Non riusciva a farsi venire in mente niente. Poteva solo decidere se morire in quella bolla oppure… non voleva pensare alle altre possibilità.

      Fantastico. Di chi era stata quell’idea?

      Tese una mano verso il polpaccio e aprì una zip dei suoi pantaloni cargo. Aveva una minuscola Derriger da due colpi legata alla gamba. Era una pistola per il suicidio. Strappò il nastro adesivo dalla pelle, senza sentire quasi niente nonostante i peli strappati. Si portò l’arma alla testa e fece un profondo respiro.

      “Che cosa stai facendo?” domandò Bolger, con voce allarmata. “Non puoi sparare qua dentro. Farai un buco in questa cosa. Siamo a centinaia di metri sotto la superficie.”

      Indicò la bolla che li circondava.

      Smith scosse la testa. “Tu non capisci.”

      All’improvviso il ragazzo delle forze speciali si erse dietro di lui. Si moveva come un grosso serpente. Gli afferrò il polso in una potente morsa. Come faceva a spostarsi tanto in fretta in uno spazio così ristretto? Per un momento, grugnirono e lottarono, senza riuscire quasi a muoversi. L’avambraccio del giovane uomo si tese contro la gola di Smith, e poi gli sbatté la mano sulla console.

      “Lasciala!” ordinò. “Lascia la pistola!”

      L’arma cadde. Smith spinse giù le gambe e si tese all’indietro, cercando di liberarsi del giovane.

      “Non sai chi sono.”

      “Smettetela!” urlò il pilota. “Smettetela di lottare! State colpendo i comandi.”

      Smith riuscì ad alzarsi dal sedile, ma ormai l’altro era sopra di lui. Era forte, immensamente forte, e lo costrinse ad accovacciarsi tra la seduta e la parete del sottomarino. Lo spinse lì e lo fece raggomitolare a terra. Gli si chinò sopra, ansimando pesantemente. Il suo fiato di caffè soffiò all’orecchio di Reed Smith.

      “Posso ucciderti, okay?” disse il giovane uomo. “Posso ucciderti. Se è necessario farlo, okay. Ma non puoi sparare un colpo qua dentro. Io e l'altro tizio vogliamo


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