Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2. Джек Марс
so,” gli garantì l’altro. “Lo capisco.”
Si fermò, respirando affannato.
“Vuoi che ti ammazzi? Lo faccio, decidi tu.”
Reed rifletté. La pistola sarebbe stata un modo facile per farla finita. Non avrebbe dovuto pensarci tanto. Gli sarebbe bastato premere il grilletto e poi… qualsiasi cosa venisse dopo. Ma a lui piaceva vivere. Non voleva morire così presto. Magari sarebbe riuscito a cavarsela, e non avrebbero scoperto la sua identità. Forse non lo avrebbero torturato.
C’era la possibilità che i russi volessero solo confiscare il loro sottomarino altamente tecnologico, per poi proporre uno scambio di prigionieri senza tante domande. Forse.
Iniziò a respirare con più calma. Non sarebbe mai dovuto andare lì. Era vero che sapeva intercettare i cavi delle comunicazioni, che aveva esperienza nelle missioni subacquee e che era un abile agente. Ma…
L'interno del sommergibile era ancora illuminato da un chiarore accecante. I russi avevano appena assistito a tutto lo spettacolo.
Già quello gli sarebbe valso diverse domande.
Ma Reed Smith voleva vivere.
“Okay,” disse. “Okay. Non uccidermi. Fammi alzare, va bene? Non farò niente.”
Il ragazzo iniziò a levarsi in piedi. Non fu semplice. Lo spazio nel sommergibile era tanto stretto che erano come se fossero caduti e rimasti travolti dalla calca alla Mecca. Era difficile districarsi.
Dopo pochi istanti Reed Smith tornò nel suo sedile. Aveva preso la sua decisione. Sperò che fosse quella giusta.
“Accendi la radio,” disse a Bolger. “Vediamo che cosa vogliono quei buffoni.”
CAPITOLO DUE
10:15 a.m. Ora legale orientale
La Situation Room
La Casa Bianca, Washington, DC
“A quanto pare tutta la missione era mal concepita,” stava dicendo un assistente. “Il nostro problema è trovare una scusa plausibile.”
David Barrett, dall’alto dei suoi due metri, abbassò lo sguardo sull’uomo. L’assistente aveva capelli biondi e radi, era lievemente sovrappeso e portava un abito troppo largo sulle spalle e troppo stretto attorno alla vita. Si chiamava Jepsum. Era un nome infelice per un uomo altrettanto sfortunato. A Barrett non piacevano gli uomini più bassi di un metro e ottanta, né quelli che non si tenevano in forma.
Barrett e Jepsum stavano attraversando rapidamente i corridoi dell’Ala Ovest, diretti verso l’ascensore che li avrebbe portati alla Situation Room.
“Quindi?” disse Barrett, spazientito. “Questa scusa plausibile?”
Jepsum scosse la testa. “Ecco. Non ne abbiamo una.”
Una schiera di persone avanzava insieme ai due uomini, davanti a loro, dietro e tutt’intorno. Erano assistenti, stagisti, agenti dei Servizi Segreti, staff di vario genere. Come sempre Barrett non aveva idea di chi fosse una buona metà di quella gente. Era una massa confusa di umanità che gli sfrecciava accanto, e lui si ergeva di una testa sopra quasi tutti. Quelli più bassi avrebbero potuto essere persino di un’altra specie rispetto a lui.
La persone basse lo frustravano, ogni giorno sempre di più. David Barrett, il presidente degli Stati Uniti, era tornato a lavoro troppo presto.
Erano passate solo sei settimane da quando sua figlia Elizabeth era stata rapita dai terroristi e poi salvata dai commando americani in una delle missioni segrete più audaci nella storia recente. Lui aveva avuto un esaurimento durante la crisi. Aveva abbandonato il suo incarico, e chi avrebbe potuto biasimarlo? In seguito era stato così esausto, sfiancato e sollevato per il salvataggio della figlia da non avere le parole per riuscire a esprimerlo.
L’intero gruppo entrò in ascensore, pigiandosi come tante sardine in scatola. Insieme a loro c'erano due uomini dei Servizi Segreti. Erano entrambi alti, uno di colore e uno bianco. Le teste di Barrett e dei suoi custodi svettavano al di sopra di tutti gli altri nella cabina, come statue dell’Isola di Pasqua.
Jepsum lo stava ancora guardando dal basso, con occhi così accorati da sembrare quasi un cucciolo di foca. “… e la loro ambasciata non dà nemmeno segno di aver ricevuto le nostre comunicazioni. Dopo il disastro alle Nazioni Unite del mese scorso, non credo che possiamo aspettarci la loro cooperazione.”
Barrett non riusciva a seguirlo, ma qualsiasi cosa stesse dicendo mancava di vigore. Il presidente non aveva uomini più forti a sua disposizione?
Stavano parlando tutti insieme. Prima del rapimento di Elizabeth, si sarebbe lanciato in una delle sue leggendarie filippiche solo per chiudere la bocca al gruppo. Ma ora? Li lasciò farfugliare, le loro parole una musica senza senso. Si perse nel rumore.
Ormai era tornato a lavoro da cinque settimane, e quel tempo era passato in un lampo. Aveva licenziato il suo capo dello staff, Lawrence Keller, in seguito al rapimento. Anche Keller era un tappo—non raggiungeva il metro e ottanta—e Barrett aveva iniziato a sospettare che non gli fosse leale. Non ne aveva le prove, e non riusciva nemmeno a ricordare perché se ne fosse stato convinto, ma aveva creduto che in ogni caso fosse meglio liberarsi di lui.
Purtroppo significava che ora non aveva più la calma elegante e l’efficienza spietata di Keller. Senza il suo capo dello staff, Barrett si sentiva instabile, spaesato, incapace di dare un senso alle continue crisi, i mini-disastri e le pure informazioni con cui era bombardato quotidianamente.
Stava iniziando a pensare di essere sull'orlo di un altro esaurimento. Faceva fatica a dormire. A dirla tutta, quasi non dormiva affatto. A volte, quando era da solo, iniziava a iperventilare. In qualche occasione, a tarda notte, si era ritrovato chiuso nel suo bagno privato a piangere in silenzio.
Probabilmente gli avrebbe fatto bene vedere uno psicologo, ma quando eri il presidente degli Stati Uniti non potevi assumerne uno come niente fosse. Se la stampa lo avesse saputo, e i talk show… non voleva nemmeno pensarci.
Sarebbe stata la fine, per usare un eufemismo.
L'ascensore si aprì nella Situation Room, una sala a forma di uovo. Era moderna, come il ponte di comando di una nave spaziale della televisione. Era progettata per sfruttare al massimo lo spazio, con grandi schermi integrati nelle parete a mezzo metro l'uno dall’altro, e uno ancora più ampio di fronte al tavolo.
A eccezione della poltrona di Barrett, ogni altra comoda seduta di pelle attorno al tavolo per le conferenze era già occupata; c’erano uomini corpulenti in giacca e cravatta, e militari snelli e dritti in uniforme. Un soldato alto in uniforme di gala era in piedi all’altro capo della sala.
L’altezza. Per qualche motivo era rassicurante. David Barrett era alto e per la maggior parte della vita era stato estremamente sicuro di sé. Anche quell'uomo che si stava preparando a gestire la riunione sarebbe stato sicuro. In effetti, trasmetteva affidabilità e autorità. Quell’uomo, quel generale a quattro stelle...
Richard Stark.
Barrett si ricordò che il generale non gli piaceva molto. Ma d'altra parte non gli piaceva molto nessuno in quel momento. E Stark lavorava al Pentagono. Magari avrebbe potuto fare luce su quell'ultimo misterioso contrattempo.
“Calmatevi,” disse il generale, mentre il gruppo appena uscito dall’ascensore si avviava verso le poltrone.
“Signori! Calmatevi. È arrivato il presidente.”
La stanza si acquietò. Si udì ancora qualche mormorio, ma anche gli ultimi si ammutolirono in fretta.
David Barrett si accomodò nella sua poltrona.
“Okay, Richard,” esordì. “Lasciamo perdere i convenevoli e rimandiamo le lezioni di storia. Le abbiamo giù sentite tutti. In nome di Dio, mi dica solo che cosa sta succedendo.”
Stark