Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3. Джек Марс

Minaccia Primaria: Le Origini di Luke Stone—Libro #3 - Джек Марс


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      Il suono riecheggiò in lontananza, sul ghiaccio e sull’acqua.

      Fu un colpo diretto al corpo, all’altezza del petto. L’uomo agitò scompostamente le braccia e lasciò cadere la pistola. Fu sbalzato all’indietro e sollevato in aria, per poi ricadere sulla terra gelata come una bambola di pezza.

      Non era un buon segno. Dalla sua reazione Big Dog capì che l’uomo indossava un giubbotto antiproiettile. La pallottola non lo aveva trapassato, lo aveva solo fatto cadere all’indietro. Lo avrebbe sentito per un po’, e il giorno successivo sarebbe stato terribilmente dolorante, ma non sarebbe morto.

      Non ancora, per lo meno.

      Espulse la cartuccia esausta del fucile e mise un altro colpo in canna. Prese di nuovo la mira sull’uomo che stava strisciando per terra.

      Si concentrò sulla sua testa.

      BANG.

      L’eco si perse nelle vaste distese vuote. Al posto del cranio si allargò un cerchio di sangue. In automatico, senza pensare, Big Dog espulse la cartuccia e mise in canna un altro colpo.

      Il prossimo.

      Un altro bastardo vestito di nero si era inginocchiato vicino all’uomo morto. Sembrava che stesse controllando i suoi segni vitali. Ma a che scopo? Non aveva più metà della testa.

      Big Dog sorrise e puntò il mirino sulla sua testa. Il tizio era un idiota.

      BANG.

      Ma non più.

      La testa del secondo uomo esplose proprio come era successo al primo, in uno spruzzo di rosso nell’aria, come lo soffio dallo sfiatatoio di una balena appena sotto la superficie del mare. I due cadaveri finirono uno sopra l’altro, un ammasso nero sulla terra bianca.

      Big Dog abbassò il fucile per avere una visuale più ampia del campo. Si era scatenato il caos. Gli uomini correvano da tutte le parti. Sparavano. Cadevano morti a terra.

      Troppo tardi, vide due aggressori inginocchiarsi. Gli puntarono contro le armi. Da quella distanza lui non riusciva a capire che cosa stessero imbracciando. Erano piccole mitragliatrici, compatte, forse Uzi, o magari MP5.

      Passò meno di un secondo.

      Big Dog si spinse via dalla ringhiera proprio quando la prima sventagliata di pallottole lo raggiunse. Lo attraversarono e lui si sentì il corpo sconvolto da uno scatto convulso. Poi arrivò il dolore, come in differita.

      Gli scivolarono i piedi all’indietro, facendogli perdere l’equilibrio, e Big Dog cadde in avanti sulla ringhiera. Rischiò di dar di stomaco sotto di sé.

      Ma la sua altezza e l’impeto lo spinsero al di là del parapetto. Ci fu un momento assurdo in cui parve appollaiato sulla sbarra di metallo, con tutto il peso sulla pancia. Poi cadde. Cercò disperatamente di afferrare il ferro dietro di lui, ma fu tutto inutile.

      Passarono un paio di secondi. Poi l’IMPATTO.

      Il tempo si fermò. Lui fluttuò. Quando aprì di nuovo gli occhi, si ritrovò a fissare un cielo che pareva buio. Era finita quella giornata maledetta, e le fredde stelle stavano iniziando a riempire la volta celeste a milioni, giocando a nascondino tra le nuvole in movimento. Batté le palpebre e tornò giorno.

      Capì subito che cosa era successo. Era caduto sul pontile di ferro, due piani più sotto rispetto al livello del centro di comando. Era stato un brutto atterraggio. Doveva essersi fratturato tutte le ossa. Aveva il cranio spaccato.

      E poi, quando ricordò gli eventi, fu come se i proiettili lo colpissero di nuovo. Fu colto dalle convulsioni. Gli avevano sparato con le mitragliatrici.

      Era impossibile dire quanto tempo fosse passato. Forse pochi minuti. Forse ore. Cercò di muoversi. Era doloroso qualsiasi gesto. Ma era una cosa positiva, significava che aveva ancora la sensibilità. C’era un liquido scuro attorno a lui sul pontile. Il suo sangue. Ansimava con ogni respiro, come un sollevatore idraulico danneggiato, e gli gorgogliava del fluido in bocca.

      Da qualche parte, poco distante, si udivano ancora spari. C’erano grida, urla di dolore, o forse di panico.

      Un’ombra calò su di lui.

      Due uomini gli si erano avvicinati, per controllarlo. Entrambi indossavano pesanti giacche nere con delle toppe bianche. Sopra sembrava esserci l’immagine di un aquila o di qualche rapace. Portavano pantaloni verde mimetico, come quelli usati dai soldati nelle missioni a terra, nelle zone del mondo non coperte di neve. E ai piedi avevano pesanti stivali neri.

      I loro volti erano nascosti da passamontagna neri. Si vedevano solo gli occhi, duri e privi di compassione.

      Che cosa credevano di fare?

      “Chi…?” chiese Big Dog.

      Era difficile parlare. Stava morendo e lo sapeva. Ma non era tipo da gettare la spugna. Non lo era mai stato e non sarebbe ancora successo.

      “Chi siete?” riuscì a domandare.

      Uno degli uomini disse qualcosa in un linguaggio che non capì.

      L’invasore sollevò l’arma e la puntò su di lui. Il foro all’estremità della canna sembrava guardarlo, nero come una caverna. Incombeva sempre più grande.

      L’altro aggiunse una frase. Doveva essere qualcosa di serio perché nessuno dei due rise. Le loro espressioni piatte non cambiarono. Probabilmente pensavano di fargli un favore, dandogli il colpo di grazia.

      A Big Dog il dolore non faceva paura. Non credeva nel paradiso o nell’inferno. Da giovane aveva pregato i suoi antenati, ma se anche erano stati là fuori, non avevano ritenuto opportuno rispondergli.

      Forse c’era una vita dopo la morte, e forse no.

      Lui preferiva godersi l’esistenza lì sulla terra. Il dottore della piattaforma avrebbe potuto rimetterlo in sesto. Se fosse arrivato l’elisoccorso avrebbe potuto portarlo al piccolo centro traumatologico a Deadhorse. Un elicottero Apache avrebbe potuto attaccare e sgominare quei tizi.

      Poteva succedere di tutto. Finché continuava a respirare era ancora in gioco. Alzò una mano insanguinata. Incredibile che potesse ancora muovere il braccio.

      “Aspetta,” chiese.

      Non voglio morire adesso.

      Big Dog. Per decenni, era stato così che lo avevano chiamato tutti. Per la sua ex moglie lui era Big Dog, e così anche per i suoi capi. Una volta il presidente della compagnia era stato lì in visita, gli aveva stretto la mano e lo aveva chiamato Big Dog. Grugnì ripensandoci. Il suo vero nome era Warren.

      Un piccolo lampo di luce e una fiammata parvero illuminare le fauci nere del fucile di fronte a lui. L’oscurità lo raggiunse e Big Dog non seppe mai se aveva davvero visto quella luce o se era stato tutto un sogno.

      CAPITOLO DUE

      9:45 p.m. Ora legale orientale

      La Situation Room

      La Casa Bianca

      Washington, DC

      “Signor Presidente, che cosa ne pensa?”

      Clement Dixon era troppo vecchio per quella roba. Ecco cosa ne pensava.

      Era seduto a capotavola e tutti gli occhi erano su di lui. Nel corso della sua lunga carriera in politica, aveva imparato a interpretare gli sguardi e le espressioni facciali. E la sua capacità di leggere i visi gli diceva che tutte quelle persone potenti avevano raggiunto la sua stessa conclusione. Il gentiluomo dai capelli bianchi che presiedeva a quella riunione di emergenza non era la persona giusta.

      Era troppo vecchio.

      Era stato un Freedom Rider, un attivista dei diritti civili, sin dal primissimo viaggio del gruppo nel maggio del 1961. Aveva rischiato la vita per promuovere l’abolizione della segregazione nel sud. Era stato uno dei giovani oratori nelle strade durante


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