Un Vicino Silenzioso. Блейк Пирс

Un Vicino Silenzioso - Блейк Пирс


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      “Tu non stai bene”, disse Danielle. Fece un cenno verso la bottiglia di birra. “Quante ne troverò nella spazzatura, vuote?”

      “Due. E mi dispiace... ma chi sei tu per preoccuparti di quanto bevo? Da che pulpito.”

      “Oh, non mi interessa se bevi. Puoi curarti come meglio credi. Ma so che questo tipo di automedicazione non è da te. Non lo è mai stata. Tu sei quella logica... quella intelligente. È proprio perché stai affrontando la cosa come avrei fatto io un tempo che sono qui. Questo è quello che mi preoccupa.”

      “Sto bene, Danielle.”

      Danielle incrociò le braccia e si appoggiò allo schienale del divano. Se prima la conversazione era stata pacifica, Chloe sentì che la situazione era cambiata con quel semplice gesto. Lo sguardo di Danielle aveva un che di gelido.

      “Quindi vuoi dirmi che nell’ultimo anno, con te che mi proclamavi la grandiosità di papà... io ho sempre lasciato correre? Tu ed io siamo arrivate più volte allo scontro per lui, e tu ti schieravi sempre dalla sua. Per come la vedo io, mi merito un po’ di onestà, Chloe. Non sono stupida. Questa bomba esplosa con papà ti ha distrutta.”

      “Naturale.”

      “Allora dimmi cosa stai pensando. Dimmi cosa facciamo adesso. Se devo essere sincera, non vedo perché non l’hai ancora denunciato. Il diario non è abbastanza per condannarlo?”

      “Non credi che non ci abbia già pensato?” chiese Chloe, cominciando ad arrabbiarsi un po’. “E no... il diario non basta. Potrebbe essere sufficiente per riaprire il caso, ma questo è tutto. Non ci sono prove concrete... e il fatto che ci fosse già un processo e che nostro padre sia stato messo in prigione e poi lasciato andare rende il tutto ancora più difficile. Aggiungici la recente condanna di Ruthanne Carwile, e diventa un enorme casino.”

      “Quindi stai dicendo che probabilmente finirà per farla franca?”

      Chloe non rispose. Buttò giù il resto della birra ed entrò in cucina. Aprì lao sportello del frigorifero per prenderne un’altra, ma poi si fermò. Lentamente, lo richiuse di nuovo e si appoggiò al piccolo bancone della cucina.

      “Sono consapevole che è soprattutto colpa mia”, disse Chloe. Era difficile ammetterlo. Le parole avevano il sapore dell’acido, nella sua bocca.

      “Non sono qui per incolparti, Chloe.”

      “Lo so. Ma è quello che stai pensando. E non ti biasimo. Ora che ho visto cosa c’è in quel diario e ho... diciamo... capito meglio che uomo è... lo penso anch’io. Se ti avessi ascoltato prima che tutto questo iniziasse, sarebbe stato diverso. Prima di Ruthanne, prima di ottenere il mio lavoro al Bureau...”

      “Non fare così. Cerchiamo solo di guardare avanti. Cerchiamo di capire cosa possiamo fare.”

      “Non c’è proprio niente!”

      Chloe si sorprese quando urlò quelle parole alla sorella. Ma una volta pronunciate, non poteva rimangiarsele.

      “Chloe, io...”

      “Ho combinato un casino. Ho deluso te, la mamma e me stessa. Ecco come sono ora. Devo convivere con questo e non...”

      “Ma possiamo risolverlo insieme, giusto? Ascolta... mi piace questa inversione di ruoli e tutto il resto, ma non posso sopportare di vederti buttarti giù così.”

      “Non ora. Non posso occuparmene ora. Devo capire alcune cose.”

      “Lascia che ti aiuti, allora.”

      Chloe si sentiva soffocare. Sentiva anche sopraggiungere un’altra crisi, ma strinse i pugni e riuscì a placarla. “Danielle”, disse il più lentamente e pazientemente possibile, " Ti ringrazio per il pensiero e ti voglio bene per esserti così preoccupata. Ma ho bisogno di gestire la cosa da sola, per ora. Più mi assilli e insisti, più sarà difficile. Quindi, per favore... per ora... puoi andartene?”

      Chloe vide qualcosa mutare nell’espressione di Danielle. Sembrava delusa. O forse triste. Non avrebbe saputo dirlo con esattezza e, francamente, in quel momento non le importava.

      Danielle posò la sua birra sul tavolino – ancora quasi del tutto piena – e si alzò in piedi. “Voglio che mi chiami quando hai finito di essere così distante.”

      “Non sono distante.”

      “Non so cosa sei”, disse Danielle mentre apriva la porta per andarsene. “Ma distante suonava meglio di stronza.”

      Prima che Chloe potesse replicare, Danielle uscì, chiudendo la porta dietro di sé.

      Chloe avrebbe voluto che Danielle l’avesse sbattuta. Almeno avrebbe dimostrato che anche Danielle era arrabbiata quanto Chloe. Invece ci fu solo il morbido clic della serratura e nient’altro.

      Chloe rimase seduta nel silenzio che seguì per il resto del pomeriggio, e a testimoniarlo, il giorno dopo, ci sarebbero state solo le bottiglie di birra vuote nel cestino.

      CAPITOLO DUE

      La domenica, Chloe si ritrovò seduta in un parcheggio per visitatori fuori dal Centro di Detenzione di Washington. Osservò l’edificio per un attimo, prima di scendere dall’auto, cercando di capire esattamente perché si trovasse lì.

      Conosceva la risposta, ma era difficile da digerire. Era lì perché le mancava Moulton. Era una verità che non avrebbe mai detto ad alta voce, un punto dolente che non riusciva ad elaborare. Ma la pura e semplice verità era che aveva bisogno di qualcuno che la confortasse e, da quando si era trasferita a Washington, considerava Moulton come tale. Stranamente, era qualcosa di cui non si era resa conto fino a quando non era stato mandato in prigione per il suo ruolo in una frode finanziaria.

      All’inizio, aveva pensato che le mancasse solo per un’intimità fisica – il bisogno di essere abbracciata da un uomo quando si sentiva scoraggiata e smarrita. Ma quando Danielle se n’era andata il giorno prima e Chloe aveva provato un disperato bisogno di parlare con qualcuno di quello che stava affrontando, le veniva in mente solo Moulton.

      Con un’ultima spinta di motivazione, Chloe uscì dalla sua auto e varcò la soglia. Usò il proprio tesserino federale per entrare, si registrò e poi si sedette in una piccola sala d’attesa, mentre una guardia veniva inviata a prelevare l’agente Moulton. La sala era praticamente vuota; apparentemente, la domenica non era il giorno più popolare per andare in prigione a visitare i propri cari.

      Meno di cinque minuti dopo, Moulton apparve attraverso la porta sul retro della stanza. La stanza stessa era allestita come una specie di salottino. Chloe era seduta su un divano, a cui Moulton si avvicinò lentamente. La guardò con un sorriso scettico, come se cercasse di studiarla.

      “Va bene se mi siedo qui?” chiese, incerto.

      “Sì”, rispose spostandosi per lasciargli spazio sul divano.

      “È bello vederti”, disse subito Moulton. “Ma devo ammettere che è anche molto inaspettato.”

      “Come ti trattano qui?”

      Alzò gli occhi al soffitto e sospirò. “Sono per lo più uomini come me. Crimini da colletti bianchi. Non sono mai veramente preoccupato di essere aggredito nelle docce o picchiato in palestra, se è questo che intendi dire. Ma non mi va nemmeno di parlarne. Come va il lavoro? Hai qualcosa di interessante?”

      “No. Mi hanno affiancato a Rhodes. Lei ed io stiamo lavorando a un progetto di profiling. Un po’ noioso a volte, ma ci tiene impegnate.”

      “Voi due andate d’accordo?”

      “Meglio della prima volta, questo è sicuro.”

      Si avvicinò e, ancora una volta, le rivolse uno sguardo scettico. “Cosa ti porta da queste parti, Fine?”

      “Volevo vederti.”

      Lui sorrise. “Questo mi fa sentire molto meglio di quanto dovrebbe. Ma non


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