Il Nostro Sacro Onore. Джек Марс

Il Nostro Sacro Onore - Джек Марс


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CAPITOLO QUARANTAQUATTRO

       CAPITOLO QUARANTACINQUE

       CAPITOLO QUARANTASEI

       CAPITOLO QUARANTASETTE

      “… reciprocamente impegniamo le nostre vite, i nostri beni e il nostro sacro onore.”

      Thomas Jefferson

      Dichiarazione d’indipendenza

      CAPITOLO UNO

      9 dicembre

      23:45 ora del Libano (16:45 ora della costa orientale)

      Sud Libano

      “Loda Dio,” disse il giovane. “LodaLo. LodaLo.”

      Diede una bella tirata alla sigaretta, la mano che andandogli alla bocca tremava. Non mangiava da dodici ore. Nelle ultime quattro, il mondo attorno a lui era diventato completamente nero. Era un camionista, preparato a guidare i tir più grossi, e aveva portato quello oltre il confine della Siria e poi per la campagna collinare del Libano, andando piano sulle strade tortuose, a fanali spenti per tutto il viaggio.

      Era stata una corsa pericolosa. Il cielo era pieno di droni, di elicotteri, di aerei spia e di bombardieri – russi, americani e israeliani. Uno qualunque dei quali avrebbe potuto interessarsi al suo camion. Uno qualunque dei quali avrebbe potuto decidere di distruggere il camion, e senza alcuno sforzo. Aveva guidato per tutto il tempo aspettandosi continuamente che un missile lo colpisse senza preavviso, facendo di lui uno scheletro in fiamme in un rudere d’acciaio bruciato.

      Ora aveva appena portato il camion su per una stretta e lunga via e l’aveva parcheggiato sotto a un tendone. Il tendone, tenuto su da pali di legno, era fatto per sembrare dal cielo la tipica superficie forestale – in effetti la cima era ricoperta da una fitta macchia. L’ubicazione era proprio quella che avevano anticipato loro.

      Spense il motore, che scoreggiò e ruttò, con del fumo nero che si diffondeva da un fumaiolo dal lato del conducente mentre l’aggeggio si spegneva. Aprì la portiera della cabina e saltò giù. Non appena fatto, una squadra di uomini pesantemente armati si materializzò come fantasmi, emergendo dal bosco circostante.

      “As salaam alaikum,” disse il giovane camionista mentre si avvicinavano.

      “Wa alaikum salaam,” disse il leader della milizia. Era alto e massiccio, con una fitta barba nera e gli occhi scuri. Aveva un volto severo – non c’era compassione, lì. Fece un cenno al camion. “È questo?”

      Il giovane diede un altro tiro tremolante alla sigaretta. No, disse quasi. Tu parli di un altro camion. Questo qui non è niente.

      “Sì,” disse invece.

      “Sei in ritardo,” disse il leader della milizia.

      Il giovane fece spallucce. “Avresti dovuto guidare tu, allora.”

      Il leader fissò il camion. Sembrava un tipico articolato – forse di quelli che trasportano legname, o mobili, o alimenti. Ma non era così. I miliziani ci si misero subito al lavoro, due salendo fino in cima la scala a pioli sul retro, due inginocchiandosi vicino al fondo. Ogni uomo aveva un cacciavite a batteria.

      In velocità, rimossero a una a una le viti che tenevano insieme la parvenza di articolato. Nel giro di pochi istanti, rimossero dal fianco un grosso pezzo di alluminio. Un attimo dopo, ne rimossero un foglio più stretto dal retro. E poi lavoravano sull’altro lato, dove il conducente non poteva più vederli.

      Si voltò a guardare le colline notturne e la foresta. Attraverso l’oscurità, riusciva a vedere le luci di un villaggio brillare a molte miglia di distanza. Una bellissima campagna. Era contentissimo di trovarsi lì. Il suo lavoro era finito. Lui non era un miliziano. Lui era un camionista. Lo avevano pagato per attraversare il confine e recuperare quel mezzo.

      Non era neanche della regione, lui – viveva molto più a nord. Non aveva idea di quali accordi avessero preso quegli uomini per farlo tornare a casa, ma non gli importava. Liberatosi della macchina infernale che aveva guidato, se ne sarebbe tornato a casa da lì tutto contento pure a piedi.

      Dalla stretta strada piena di buche stavano arrivando dei fanali, tutta una serie. Secondi dopo, apparve una fila di tre Mercedes SUV neri. Le portiere si aprirono all’unisono e da ciascuna auto si riversarono fuori dei tiratori. Ogni uomo aveva un pesante fucile o una mitragliatrice. Il portellone posteriore dell’auto centrale si aprì per ultimo.

      Smontò dal SUV un robusto uomo dalla barba sale e pepe e con gli occhiali. Si appoggiò a un nodoso bastone di legno e avanzò zoppicando in modo pronunciato – il residuo di un attentato con autobomba alla sua vita risalente a due anni prima.

      Il giovane camionista riconobbe l’uomo istantaneamente – era sicuramente l’uomo più famoso del Libano, nonché noto in tutto il mondo. Si chiamava Abba Qassem, ed era il leader assoluto di Hezbollah. La sua autorità – in materia di operazioni militari, programmi sociali, rapporti con governi stranieri, delitti e castighi, vita e morte – non era in questione.

      La sua presenza rese il camionista nervoso. Giunse all’improvviso, come un mal di pancia. Il nervosismo che veniva quando si incontrava una celebrità, sì. Ma c’era di più. Che Qassem fosse lì voleva dire che quel camion – qualsiasi cosa fosse – era importante. Molto più importante di quanto avesse capito.

      Qassem zoppicò fino al camionista, circondato dalle guardie del corpo, e gli diede un goffo abbraccio.

      “Fratello mio,” disse. “Sei tu il camionista?”

      “Sì.”

      “Allah ti ricompenserà.”

      “Grazie, Sayyid,” disse il camionista chiamandolo col suo titolo onorario, che suggeriva che Qassem fosse il discendente diretto dello stesso Maometto. Difficile affermare che il camionista fosse un musulmano devoto, ma alla gente come Qassem quella roba pareva piacere.

      Si voltarono insieme. Gli uomini avevano già finito di rimuovere la lamina di metallo che copriva il camion. Adesso era stato svelato il vero mezzo. La parte anteriore era più o meno come prima – la cabina di un articolato, verniciata di colore verde scuro. Il lungo retro del mezzo era una piattaforma missilistica di lancio piatta a due cilindri. A giacere su ciascun cilindro di lancio c’era un grosso missile argentato, splendente e metallico.

      Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo da un sistema idraulico, e su ciascun fianco da catene d’acciaio. Questo spiegava perché fosse stato difficile da controllare – la sezione posteriore non era assicurata a quella anteriore tanto saldamente quanto sarebbe piaciuto al conducente.

      “Trasportatore Elevatore Lanciatore, lo chiamano,” disse Qassem spiegando al camionista che cosa aveva appena portato lì. “E solo uno dei tanti che il Perfettissimo ha trovato buono portarci.”

      “Ah sì?” disse il camionista.

      Qassem annuì. “Oh sì.”

      “E i missili?”

      Qassem sorrise. Era beatifico e calmo, il sorriso di un santo. “Armi molto avanzate. Lunga distanza. Accuratissime, per questo mondo. Più potenti di quanto abbiamo mai conosciuto. Dio volendo, useremo queste armi per mettere in ginocchio i nostri nemici.”

      “Israele?” disse il camionista. Quasi soffocò alla parola. Gli venne voglia di mettersi in cammino verso nord in quel preciso istante.

      Qassem gli mise una mano sulla spalla. “Dio è grande, fratello mio. Dio è grande. Molto presto, tutti sapranno con precisione quanto è grande.”

      Si allontanò, zoppicando verso il lanciatore di missili. Il camionista lo guardò andare.


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