Il Nostro Sacro Onore. Джек Марс

Il Nostro Sacro Onore - Джек Марс


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istantaneamente sotto al peso della pesante arma. Mise l’occhio destro sul mirino. Apparvero i veicoli della fila, grossi, come se potesse allungare una mano e toccarli. Il dito gli si strinse sul grilletto. Il respiro gli rimase incastrato in gola. Non era più un ragazzo con un lanciarazzi – lui e l’arma si fusero insieme, diventando un’unica entità, una macchina assassina.

      Tutt’intorno ai suoi piedi, degli uomini si muovevano come serpenti, strisciando verso la carreggiata.

      “Fermo,” ripeté la voce. “La seconda macchina, capito?”

      “Sì.”

      Nel mirino, la seconda jeep era LÌ. Vedeva le ombre delle persone che c’erano dentro.

      “È facile,” sussurrò. “Facilissimo… Fermo…”

      Trascorsero due secondi, Abu lentamente fece passare il lanciarazzi da destra a sinistra, seguendo l’obiettivo, senza mai vacillare.

      “FUOCO!”

      * * *

      Avraham Gold questa parte la odiava.

      Odiare era la parola sbagliata. La temeva. In qualsiasi secondo, ormai, poteva arrivare.

      Qui parlava sempre. Parlava troppo. Gli pareva di poter sputar fuori tutto, solo per superare quel posto. Diede un lungo tiro alla sigaretta – era contro alle regole fumare di pattuglia, ma era l’unica cosa che lo rilassava.

      “Lasciare Israele?” disse. “Mai! Israele è casa mia, ora e per sempre. Farò dei viaggi all’esterno, certo, ma andarsene? Come potrei mai? Siamo stati chiamati da Dio a vivere qui. Questa è la Terra Santa. Questa è la terra promessa.”

      Avraham aveva vent’anni, caporale delle forze di difesa israeliane. I suoi nonni erano tedeschi sopravvissuti all’Olocausto. Credeva a ogni parola che diceva. Ma gli suonavano comunque vuote alle orecchie, come un trito spot televisivo pro-coloni.

      Era al volante della jeep, a guidare la terza e ultima auto della fila. Guardò la ragazza seduta accanto a lui. Daria. Dio, che bella!

      Persino con i capelli quasi rasati, persino con il corpo coperto cerimoniosamente dall’uniforme. Era il sorriso. Poteva accendere il cielo. E quelle lunghe ciglia – da gatta.

      Lei non aveva ragione di stare lì, in quella… terra di nessuno. Soprattutto con le sue vedute. Era una liberale. Non ci dovrebbero essere liberali nelle IDF, aveva deciso Avraham. Erano inutili. E Daria era peggio che liberale. Era…

      “Io non credo nel tuo Dio,” disse semplicemente. “Lo sai.”

      Adesso Avraham sorrise. “Lo so, e quando uscirai dall’esercito farai…”

      Terminò lei il suo pensiero. “Un trasferimento a Brooklyn, esatto. Mio cugino ha una ditta di traslochi.”

      Quasi rise, nonostante il nervosismo. “Sei una ragazzina un po’ scheletrica per trasportare divani e pianoforti su e giù per rampe di scale.”

      “Sono più forte di quanto tu…”

      Allora la radio strillò. “Pattuglia Abel. Rispondete, pattuglia Abel.”

      Lui sollevò il ricevitore. “Abel.”

      “Ubicazione?” giunse la voce metallica.

      “Stiamo entrando proprio adesso nel settore nove.”

      “Giusto in tempo. Ok. Occhi aperti.”

      “Sì, signore,” disse Avraham. Risistemò il ricevitore e guardò Daria.

      Lei scosse la testa. “Se è così preoccupante, perché non fanno qualcosa?”

      Lui si strinse nelle spalle. “È l’esercito. Sistemeranno la cosa quando accadrà qualcosa di terribile.”

      Il problema ce lo avevano proprio davanti. Il convoglio si spostava da est a ovest lungo la sottile striscia di carreggiata. Alla loro destra c’era una schiera di fitta e profonda foresta – cominciava a cinquanta metri dalla strada. Le IDF avevano ripulito il territorio fino al confine. Dove cominciavano gli alberi, c’era il Libano.

      Alla loro sinistra c’erano tre verdi colline scoscese. Non proprio montagne, ma nemmeno appena in pendenza. Erano secche, e cadevano a strapiombo. La carreggiata si avvolgeva attorno e dietro di esse, e per un solo istante le comunicazioni radio erano inconsistenti, e i convogli vulnerabili.

      Il comando delle IDF parlava di quelle colline da più di un anno. Dovevano essere le colline. Non potevano sgombrare la foresta perché era territorio libanese – avrebbe causato un incidente internazionale. Quindi per un po’ avrebbero fatto saltare per aria le colline. Poi avrebbero costruito una torre di guardia sulla cima di una di esse. Entrambi i piani erano stati giudicati inidonei. Far saltare le colline voleva dire che la strada avrebbe dovuto essere temporaneamente deviata lontano dal confine. E la torre di guardia sarebbe stata sotto costante minaccia di attacco.

      No, la cosa migliore da fare era far passare delle pattuglie tra le colline e la foresta giorno e notte e sperare per il meglio.

      “Guarda quei boschi,” disse Avraham. “Occhi aperti.”

      Si accorse di aver appena ripetuto le esatte parole del comandante. Che scemo! Lanciò un’altra occhiata a Daria. Il suo pesante fucile giaceva lungo la sua sottile figura. Ridacchiava e scuoteva la testa, facendosi rossa in volto.

      Nell’oscurità davanti, dalla loro sinistra eruttò un bagliore di luce.

      Si schiantò contro alla jeep centrale, venti metri davanti a loro. L’auto esplose, girò alla sua sinistra e rotolò. L’auto bruciò, gli occupanti già inceneriti.

      Avraham schiacciò i freni, ma troppo tardi. Sbandò nel veicolo in fiamme.

      Accanto a lui, Daria urlò.

      Avevano attaccato dal lato sbagliato – il lato della collina. Lì non c’era copertura. Erano dentro a Israele.

      Non c’era tempo per parlare, non c’era tempo per dare un ordine a Daria.

      I colpi d’arma da fuoco adesso arrivavano da entrambi i lati. I proiettili di una mitragliatrice gli crivellarono la portiera. DANK-DANK-DANK-DANK-DANK. Il finestrino gli andò in pezzi, gettandogli addosso vetro. Almeno uno dei colpi aveva penetrato il giubbotto. Era stato colpito. Si abbassò lo sguardo sul fianco – c’era un’oscurità crescente che si espandeva. Sanguinava. Lo sentiva a malapena – sembrava la puntura di un’ape.

      Grugnì. Degli uomini correvano nell’oscurità.

      Istantaneamente, prima di accorgersene, aveva la pistola in mano. La puntò fuori dal finestrino mancante.

      BLAM!

      Il rumore fu assordante per le sue orecchie.

      Ne aveva preso uno. Ne aveva preso uno. Era andato giù.

      Ne mirò un altro.

      Fermo…

      Accadde qualcosa. Tutto il suo corpo venne strattonato sul sedile. Aveva mollato la pistola. Un colpo, qualcosa di pesante, lo aveva attraversato. Era venuto da dietro e aveva forato il cruscotto. Uno sparo, o un piccolo razzo. Con cautela, intorpidito dal terrore, si portò una mano al petto e toccò la zona sotto alla gola.

      Era… andata.

      Aveva una grossa voragine sul petto. Come cavolo faceva a essere ancora vivo?

      La risposta giunse istantaneamente: presto non lo sarebbe stato.

      Non lo sentì neanche. Una sensazione di calore gli si diffuse per il corpo. Guardò di nuovo Daria. Che peccato. Voleva convincerla di… qualcosa. Adesso non sarebbe mai accaduto.

      Lei lo fissava. Aveva gli occhi rotondi, come piattini da caffè. Aveva la bocca aperta in una gigantesca O di orrore. Sentiva il bisogno di consolarla, persino adesso.

      “Va tutto bene,” voleva dirle. “Non fa male.”

      Ma


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