Regno Diviso. Джек Марс

Regno Diviso - Джек Марс


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QUARANTAQUATTRO

       CAPITOLO QUARANTACINQUE

       CAPITOLO QUARANTASEI

       CAPITOLO QUARANTASETTE

       CAPITOLO QUARANTOTTO

       CAPITOLO QUARANTANOVE

       CAPITOLO CINQUANTA

       CAPITOLO CINQUANTUNO

       CAPITOLO CINQUANTADUE

       CAPITOLO CINQUANTATRÉ

       CAPITOLO CINQUANTAQUATTRO

      “… un regno diviso contro se stesso va in rovina.”

      Matteo 12:25

      CAPITOLO UNO

      28 gennaio

      11:05 ora del Sinai (4:05 ora della costa orientale)

      Vicino all’aeroporto internazionale di Sharm el-Sheikh

      Penisola del Sinai

      Egitto

      “Arriva,” disse il giovane osservatore con una punta di preoccupazione nella voce. “Arriva l’aereo.”

      Qualche metro più in là, Hashan al Malik sedeva a gambe incrociate sul terreno accidentato fumando quel che restava di una sigaretta turca. Le dita lunghe erano magre e scure, con lo sporco tanto profondamente incorporato che forse non sarebbero mai venute pulite. Aveva un viso di cuoio. La barba folta era bianca, con ancora qualche striscia di nero, ma gli occhi erano acuti e vivi. Aveva uno sguardo penetrante. Era vivo da molto tempo, e non per caso.

      Nel mondo dei combattenti itineranti di Allah – i martiri, i mujaheddin – era spesso noto come Alshaykh, la parola araba usata per dire “il vecchio”. Oggi sentiva ogni minuto che aveva vissuto. Sicuramente era troppo vecchio per tutto questo. Aveva le mani fredde – quasi come ghiaccio – e il corpo non se la passava tanto meglio. Lassù si gelava.

      Alzò lo sguardo sull’osservatore, un beduino dalla pelle scura con un turbante celeste che aveva trascorso tutta la sua breve vita attraversando quelle montagne aride e brulle. Il ragazzo indossava sandali sui piedi nudi. Aveva guance morbide e pulite – non avrebbe potuto farsi crescere la barba neanche sotto ordine di Allah. Se ne stava in piedi a guardare lontano, con il binocolo ad alto potenziale puntato a nordovest.

      “Lo vedi cosa c’è scritto?” disse Hashan.

      Esitò. “Un attimo… tra un attimo… sì.”

      Hashan adesso udiva l’aereo, il rumore dei motori lottava per essere udito sopra al ruggito del vento. Si illuse di riuscir quasi a sentire il rumore del carrello di atterraggio che si muoveva.

      “Cosa dice?”

      “Dice TUI?” disse il ragazzo, quasi ponendo una domanda. Poi, con maggiore sicurezza: “Sicuro. TUI.”

      Hashan consultò l’orologio che aveva sul polso secco. Non male, quell’orologio. Nero e pesante, dal cinturino spesso, il grosso quadrante al riparo dietro a vetro temprato. Era resistente agli urti, all’acqua, a freddo e caldo estremi e accuratissimo alle alte altitudini. Se l’avesse venduto, i ricavi avrebbero sfamato un’intera famiglia di contadini per un anno – ma l’orologio era più importante dei contadini. La famiglia poteva morire di fame, ma un uomo come Hashan aveva bisogno di sapere che ore fossero.

      E l’orario, guarda caso, era esatto. L’aereo era in ritardo di venti minuti.

      “Ci siamo,” disse Hashan. “È lui.”

      Diede un ultimo tiro alla sigaretta e poi la gettò con il pollice e l’indice. Si alzò e si levò di dosso la pesante coperta di lana ruvida. Si concesse qualche secondo per ammirare le protuberanze delle colline che li circondavano e le innevate montagne più alte appena a ovest. Due secondi, forse tre – non c’era molto tempo. Riusciva già a vedere il puntino nero spostarsi nel cielo, crescere di dimensione, venire da loro.

      Sollevò da terra il lanciarazzi marrone e verde. Era un aggeggio bellissimo – uno Strela-2, sistema missilistico terra-aria di fabbricazione russa recuperato dalle scorte personali del recentemente deceduto lacchè dell’Occidente, Mu’ammar Gheddafi.

      Hashan passò rapidamente in rassegna le preparazioni precedenti l’attacco. Lo Strela poteva essere ricaricato, ma non sul campo. Avrebbe avuto un colpo solo, quindi meglio essere pronto. Rimosse le coperture e allungò i mirini, poi si posizionò il tubo sulla spalla. Attivò l’alimentazione dei componenti elettronici del missile e attese qualche secondo che si stabilizzasse.

      Il lanciarazzi gli pesava molto sulle ossa – lo aveva fatto portare lì dal ragazzo.

      I suoi sessantadue anni gli pesavano addosso più del razzo stesso. Aveva combattuto molte guerre in molti luoghi, ed era stanco. Essere stato mandato lì gli pareva più una punizione che un onore. Ieri aveva percorso a piedi quelle montagne impervie con il giovane del posto come guida, e avevano trascorso la notte senza cibo e senza fuoco, e si erano tenuti vicini sul terreno gelato in cerca di calore.

      Il viaggio era stato difficile, ma Hashan aveva già avuto freddo e fame in passato, molte volte. Abbattere aerei di linea con vecchi missili da spalla sovietici era ancor più difficile. Si doveva essere degli esperti, e Hashan lo era, ma comunque…

      Comunque…

      Scosse la testa. Vecchio sciocco. Era Allah ad aguzzargli la vista. A tenergli ferme le mani. A guidare il missile al suo obiettivo.

      Hashan era troppo stanco persino per pregare. Gli passò per la mente un’immagine – Allah immerso in una luce brillante che lo convocava in Paradiso. Sospirò. Avrebbe dovuto. Il Perfettissimo conosceva tutto, incluse le intenzioni del suo servo più inadeguato.

      “Dammi la forza,” mormorò sottovoce Hashan.

      Posizionò l’occhio destro dietro ai mirini di ferro, immobilizzò il tubo con la mano sinistra e tirò per metà il grilletto con la destra. Lo fece quasi automaticamente, come se il lanciarazzi agisse da solo. Hashan ora vedeva l’aereo abbastanza chiaramente – una specie di grossa barca, come un grasso bombo che si spostava lentamente da sinistra a destra, scendendo per atterrare all’aeroporto venti miglia a sud da lì. Il sole invernale luccicava sul vetro della cabina di pilotaggio a mano a mano che si avvicinava.

      Non aveva importanza quello che vedeva Hashan. Avrebbe deciso il missile se la visuale era libera. D’un tratto, apparve una luce nei mirini di ferro e partì una bassa sirena. Il missile aveva acquisito un segnale a infrarossi dall’aereo. Hashan puntò il lanciatore davanti all’aereo, guidandolo di poco. Si piantò sui piedi e premette completamente il grilletto.

      Il missile uscì dal tubo con un WHOOOSH, e la forza che ci mise fece oscillare la sottile figura di Hashan. Lo osservò andare, le pinne anteriori e posteriori saltarono fuori immediatamente. Parve volar via al rallentatore, e quasi immaginò di vederlo ruotare.

      “Dio è grande,” disse il ragazzo accanto a lui.

      Hashan annuì. “Sì.”

      Questo era vero, che il missile trovasse o meno l’obiettivo.

      * * *

      Il deputato del Texas Jack Butterfield poltriva sul sedile vicino al finestrino della prima classe bevendo


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