Regno Diviso. Джек Марс

Regno Diviso - Джек Марс


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da giovane, il tutto simultaneamente.

      “È uno spasso, Marsh,” disse Jack, e non scherzava. L’intero viaggio era stato uno spasso, finora. Quello era l’aereo del partito. Avevano cominciato tutti a bere in una sala VIP dell’aeroporto prima di partire da Gatwick. Erano andati a zonzo a piacere per la cabina per tutta la durata del volo, come se fossero a un cocktail party volante.

      E la giovane hostess rossa di capelli gli aveva appena servito un altro drink, anche se stavano atterrando. La seguì con gli occhi risalire il corridoio per fermarsi alla fila del console generale egiziano. Mamma mia, quanto gli sarebbe piaciuto vivere qualche disavventura con quella hostess.

      Doveva pensare a una ragione per richiamarla da lui.

      “Se a te sta bene,” disse Jack, “probabilmente questa storia non la racconterei all’inaugurazione.”

      “Oh, dubito che anche solo una persona ne rimarrebbe sorpresa,” disse Marsh Dennis. “Sono un tipo sportivo da sempre.”

      “Lo so. Credimi quando dico che seguo le tue…”

      E allora l’aereo si inclinò bruscamente e sbandò violentemente a sinistra. Dall’altoparlante del velivolo giunse una voce. Jack riconobbe la lenta parlata strascicata dell’Oklahoma del pilota, un vecchio veterano della marina statunitense che Jack aveva brevemente incontrato salendo a bordo. Ma adesso la voce era diversa. L’uomo parlava rapido e forte.

      “Assistenti di volo! Prepararsi per atterraggio di emergenza.”

      Qualcuno due file dietro trasalì.

      La carina assistente di volo dai capelli rossi era caduta in grembo al console generale. L’aereo sbandava tanto che si ritrovava quasi sottosopra, a gambe all’aria. Non riusciva a rimettersi in piedi.

      Jack Butterfield si voltò verso Marsh Dennis. Tutto parve rallentare e assumere un velo surreale. Gli occhi iniettati di sangue di Marsh erano sgranati, quasi rotondi dalla paura improvvisa. Per la prima volta, Jack si accorse delle profonde rughe che aveva in faccia – lunghi e stretti canyon che gli mareggiavano giù per le guance.

      Jack abbassò lo sguardo sulla propria mano, che teneva la vodka in una tazza di plastica da aeroplano. Non ne aveva versata una goccia, nonostante il trambusto. Provò un momento di assurdo orgoglio alla cosa – beveva da molto. Diavolo, era uno del Texas, lui.

      “Virare a destra!” gridò qualcuno alle casse. “Tutto a destra, ho detto. Oddio, ci sta seguendo!”

      Jack si guardò intorno in cerca della cintura. La trovò, la agganciò e la strinse forte.

      Trascorse un attimo.

      “Prepararsi all’impatto,” disse qualcuno.

      Impatto?

      Accanto a lui, Marsh Dennis mise le mani rovinate sulla cima del sedile davanti.

      Da qualche parte dietro di loro, lontano nella cabina principale, giunse un rumore. Il deputato Jack non lo capì. Era così forte da andare oltre la sua comprensione. Era come un tuono moltiplicato per mille. Un istante dopo, la traiettoria di volo cambiò drasticamente. L’aereo stava precipitando – una caduta nauseante. Giunse il fischio della corsa… non c’era nulla di paragonabile.

      Le cose adesso presero il volo, risucchiate all’indietro. La bella rossa fu una di queste. Il carrello dei drink che portava fu un’altra. E dopo, partì un’altra persona – un grassone in giacca e cravatta.

      “Posizione di schianto!” gridò una voce tonante.

      Jack urlò, ma senza riuscire a sentirsi. Lasciò cadere il drink e si schiacciò le mani sulle orecchie.

      La cabina dell’aereo era come uno stretto tunnel davanti a lui. Quando si capovolse, chiuse forte gli occhi. Nel mezzo del terrore che provava, non gli venne in mente nessun pensiero, solo una fioca consapevolezza che, qualunque cosa fosse seguita, lui non voleva vedere.

      * * *

      “Arriva,” disse Liz Jones.

      Se ne stava in piedi con la sua squadra avanzata dell’accoglienza all’area ricevimento internazionale passeggeri VIP del terminal 1 dell’aeroporto di Sharm el-Sheikh. Tutta la squadra era vestita con le uniformi nero e oro della Dennis Hotels Worldwide. Lei portava un tailleur marrone chiaro.

      Lì i finestroni erano alti quattro piani, e offrivano un panorama imponente delle montagne circostanti e del deserto che si avvicinava all’aeroporto.

      Sentì un briciolo di nervosismo correrle giù per la schiena – quella era una faccenda seria. Stava arrivando un carico passeggeri di pezzi grossi, incluso Sir Marshall Dennis in persona, e per la maggior parte adesso sarebbero stati belli ubriachi. Ma Liz poteva farcela. Lo sapeva bene. Aveva corso con i grandi di tutto il mondo, per anni e anni.

      “Datevi una mossa,” disse.

      D’un tratto un giovane del gruppo, un irlandese, trasalì. Poi una giovane urlò. Adesso sempre più persone nella lounge urlavano.

      Liz guardò fuori dalla finestra, col bel viso di mezza età intorpidito, il cervello congelato dallo shock. Per un lungo momento non capì quello che stava succedendo là fuori. Non aveva senso. Quei dati poco familiari non tornavano.

      D’altra parte, in un punto profondo della sua mente, sapeva di aver immagazzinato un video di quello che stava accadendo in quel momento. Se lo avesse rivisto, sapeva che cosa sarebbe stato – l’aereo in avvicinamento sopra alle montagne, poi un bagliore di luce sulla fiancata destra del velivolo circa a metà, appena dietro all’ala. Lo aveva visto succedere in tempo reale, ma era stata incapace di processare la cosa. Si stava preparando psicologicamente allo sbarco, e non si era accorta di quello che stava guardando.

      L’aereo si era spezzato a mezz’aria. All’inizio ce n’erano due pezzi, poi tre, poi quattro. La parte posteriore della fusoliera era partita roteando come un boomerang. La sezione anteriore era schizzata in basso in avanti. Si era capovolta, velocissima, schiantandosi contro alla collina pedemontana e mandando in volo migliaia di frammenti. Le ali si erano disintegrate sbattendo a terra.

      Liz continuò a fissare. Adesso non c’erano che incendi su tutta la collina. Tutt’intorno a lei, la squadra rimaneva ammutolita, delle statue in nero e oro della Dennis. Dietro a loro, nel terminal, la gente ancora urlava, e adesso correva.

      Molti erano crollati al suolo.

      “Era davvero l’aereo?” disse Liz a nessuno in particolare.

      CAPITOLO DUE

      4:35 ora della costa orientale

      Residenza della Casa Bianca

      Washington DC

      Suonava il telefono.

      Faceva un rumore strano, non tanto uno squillo quanto un ronzio. Però era forte. In più, ogni squillo accendeva l’oscurità del mattino di azzurro, come le luci delle macchine della polizia. Luke Stone quel telefono lo odiava.

      Se ne stava tra la veglia e il sonno. Gli passavano delle immagini per la testa. Gli ultimi anni: un’esplosione alla vecchia Casa Bianca, l’imponente colonnato che andava in pezzi, con dei frammenti che volavano in aria; una battaglia a suon di pistole e razzi nell’ampio stadio aperto della Corea del Nord; gli occhi feroci di Ed Newsam e una nave portacontainer inghiottita dalle fiamme alle sue spalle; Mark Swann, scheletrico e barbuto con una tuta arancione, gli occhi vacui, incatenato a un gruppo di altri prigionieri dell’ISIS; gli occhi sofferenti e rabbiosi di Becca, il suo volto magro, la pelle come carta… i grandi occhi preoccupati di Gunner, che lo fissavano perché Luke facesse…

      Luke aprì gli occhi. Accanto a lui, sul comodino, nel buio della camera da letto presidenziale, il telefono infernale continuava a suonare. Un orologio digitale si trovava accanto al telefono. Guardò i numeri rossi.

      4:35. Come sbatté le palpebre, cambiarono. 4:36.

      “Gesù,”


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