Il regno dei draghi. Морган Райс
che il loro amico si meritasse qualche percossa per qualsiasi cosa pensavano avesse fatto.
Quanto al principe Rodry, era ancora di sopra, dall’altra parte del piano della Casa, a testare la lancia. Se aveva sentito il trambusto nonostante il baccano dei martelli in azione e i soffi di quelle forge incessanti, non lo dava a vedere. Gund non sarebbe intervenuto, perché quel vecchio uomo non era sopravvissuto così a lungo nel mondo delle ferriere andando in giro a piantare grane.
Devin sapeva di dover fare altrettanto e stare sulle sue, anche quando vide il principe alzare di nuovo la mano.
“Non ti scusi?” chiese Vars.
“Non ho fatto niente!” insistette Nem, forse troppo sconvolto per ricordarsi come funzionasse il mondo, ma la verità era che non era molto brillante quando si trattava di cose di questo genere. Era ancora convinto che il mondo fosse retto, pensava che non fare torti a nessuno bastasse come scusa.
“Nessuno può parlarmi così,” disse il principe Vars e colpì Nem di nuovo. “Adesso ti inculcherò le buone maniere a suon di legnate e, quando avrò finito, mi ringrazierai per la lezione; e se sbagli il mio titolo mentre lo fai, ti metterò in testa anche quello con lo stesso metodo. O, no, iniziamo con una bella lezione.”
Devin era consapevole di non poter fare niente, perché lui non era giovane quanto Nem, e sapeva come andava il mondo. Se un principe di sangue ti pesta un piede, sei tu a doverti scusare con lui o a doverlo ringraziare per quel privilegio. Se vuole la tua opera migliore, gliela vendi, anche se sembra incapace di brandirla nel mondo corretto. Non interferisci, non intervieni, perché farlo implicherebbe delle conseguenze, per te e per la tua famiglia.
Devin aveva una famiglia, al di fuori delle mura della Casa delle Armi. Non voleva che venisse fatto loro del male perché era stato una testa calda e si era scordato le buone maniere; ma non voleva neanche restare lì fermo, a guardare un ragazzo mentre viene picchiato fino a perdere i sensi per i capricci di un principe ubriaco. La sua presa si strinse sul martello e Devin lo posò, cercando di convincersi a restarne fuori.
Poi il principe Vars afferrò Nem per una mano e gliela posò di forza in basso, su una delle incudini.
“Vediamo che bravo fabbro diventi con una mano rotta,” disse. Impugnò un martello e lo sollevò e, in quel momento, Devin capì cosa sarebbe successo se non avesse fatto niente. Il cuore gli ruggiva in petto.
Senza pensarci due volte, balzò in avanti e afferrò il principe per un braccio. Non fece deflettere il colpo di molto, ma bastò a fargli mancare la mano di Nem per approdare sul ferro dell’incudine.
Mantenne la presa, nel caso il principe tentasse un secondo colpo per spaccargli la faccia.
“Che cosa?” disse il principe Vars. “Toglimi le mani di dosso.”
Devin lottò per immobilizzargli la mano; così vicino a lui, poteva sentire l’odore dell’alcol nel suo respiro.
“Non se avete intenzione di attaccare il mio amico,” disse Devin.
Sapeva che il solo aver fermato il principe, lo aveva messo nei guai; ma era troppo tardi ormai.
“Nem non capisce, e non è stato lui ad avervi fatto rovesciare metà delle armature qui dentro. L’alcol è la vera causa.”
“Toglimi le mani di dosso, ho detto,” ripeté il principe, mentre faceva scivolare l’altra mano verso il coltello da tavola che portava alla cintura.
Devin lo spinse via da sé con più delicatezza possibile. Una parte di lui sperava ancora di poter giungere a una risoluzione pacifica, anche se sapeva benissimo cosa stava per succedere.
“Non volete farlo davvero, vostra altezza.”
Vars gli lanciò uno sguardo truce, respirando forte, con un’espressione di odio puro.
“Non sono io ad aver commesso un errore qui dentro, traditore,” ringhiò il principe Vars, con un tono che evocava la morte.
Vars posò il martello e sollevò una spada d’armi da uno dei banchi da lavoro, sebbene fosse ovvio a Devin che non fosse esperto nel manovrarla.
“Proprio così, sei un traditore. Attaccare un reale è alto tradimento e chi commette il fatto muore per questo.”
Agitò la spada verso Devin che, d’istinto, prese la prima cosa che trovò. Era un martello che aveva forgiato lui stesso e lo alzò per bloccare il colpo, facendone risuonare il ferro su quello della spada prima che lo prendesse dritto alla testa. L’impatto gli fece vibrare le mani e non c’era tempo per pensare adesso. Colpendo la lama con la testa del martello, la scaraventò via dalla presa del principe con tutta la sua forza, facendola sferragliare sul pavimento per unirla alla pila di armature che giacevano lì.
Si fermò a quel punto. Era arrabbiato che il principe potesse andare lì e percuoterlo in quel modo, ma Devin era una persona di pazienza: i metalli la richiedono; un uomo che cede alle smanie in una ferriera finisce per farsi del male.
“Lo avete visto?” urlò il principe Vars, puntandogli contro un indice che tremava per rabbia, o paura. “Mi ha colpito! Catturatelo. Voglio che venga rinchiuso nella cella più profonda del castello e la sua testa deve essere appesa a un palo al mattino.”
I giovani uomini attorno a lui sembravano riluttanti ad agire, ma era ovvio che non si sarebbero schierati con qualcuno di umili natali che affronta un principe, com’era Devin. La maggior parte teneva ancora in mano spade o lance che avevano brandito con movenze di dilettanti e ora Devin si ritrovava nel mezzo di un anello formato da tali armi, tutte puntate dritte al suo cuore.
“Non voglio problemi,” disse, non sapendo cos’altro fare. Abbandonò il martello che risuonò sul pavimento, perché sarebbe stato inutile in quella posizione. Cosa poteva fare, cercare di cavarsela contro così tanti? Nonostante sospettasse di saperci fare con le lame più di quegli uomini, erano troppi anche solo per fare un tentativo, e cosa sarebbe successo se ci avesse provato? Dove sarebbe potuto fuggire e cosa ne sarebbe stato della sua famiglia?
“Forse non serve neanche una cella,” disse il principe Vars. “Forse lo decapiterò qui, dove potete vedere. Fatelo mettere in ginocchio. In ginocchio, ho detto!” ripeté quando gli altri non lo fecero abbastanza in fretta.
Quattro di loro avanzarono e spinsero Devin a terra, mentre gli altri tenevano le loro armi puntate su di lui. Il principe Vars, nel frattempo, aveva impugnato di nuovo la spada. La sollevò, ovviamente testandone il peso e, in quel momento, Devin comprese che sarebbe morto. La paura prese il sopravvento su di lui, perché non riusciva a vedere una via d’uscita. Non importava quanto pensasse, non importava quanto fosse forte; le cose non sarebbero cambiate. Gli altri potevano non essere d’accordo con ciò che il principe era sul punto di fare, ma si sarebbero comunque attenuti ai suoi ordini. Sarebbero rimasti lì in piedi, a guardare il principe agitare quella spada e…
… e il mondo sembrò assopirsi in quel momento, un battito cardiaco che scemava nel successivo. In quell’istante, era come se potesse vedere ogni muscolo nel corpo del principe, insieme alle faville del pensiero che lo animavano. Era facile in quel momento raggiungerle e incanalarle a suo piacimento.
“Ahia! Il mio braccio!” gridò il principe Vars, con la spada che sferragliava contro il pavimento.
Devin fissò la scena, attonito. Cercava di dare un senso a ciò che aveva appena fatto.
Ed era terrorizzato da se stesso.
Il principe era in piedi lì, a stringersi forte il braccio, strofinandolo per riportarsi una qualche sensazione alle dita.
Devin non poteva fare altro che fissarlo. Era davvero riuscito a fare una cosa del genere? Come? Come poteva qualcuno far venire un crampo al braccio di un avversario solo con il pensiero?
Richiamò il sogno un’altra volta…
“Basta così,” urlò una voce, interrompendoli. “Lasciatelo andare.”
Il principe Rodry entrò nel cerchio d’armi e i giovani uomini fecero un inchino