Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!. Beltramelli Antonio

Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella! - Beltramelli Antonio


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Geltrude e la contessa Buttasenno e la marchesa Palmividi e la principessa Assaiassai! Tutte si mossero le squinternate signore, per Giacometta che aveva gli occhi celesti; e vestiron di gala e tentaron gli ispidi zii i quali rispondevano sempre con lo stesso muso e nello stesso tono:

      — Lo racconta a noi? E che ci entriamo noi?... Ne parli a Giacometta. E' lei che deve sposare.

      Ma Giacometta, fin dalle prime parole, rideva.

      E la città dai tre campanili si accigliò, fece il viso dell'arme.

      — Ah, quella Giacometta, che testa romantica!... Che brutta educazione!... Ma che vuole? Ma che cosa aspetta? Il principe delle Asturie? Già, infelice l'uomo che la prenderà in moglie, con quel temperamento!... È una cavallina da brutte sorprese!... O certo che il marito, le corna le avrà dopo un mese, a farla lunga!...

      E fosti diffamata per la bocca stessa di quelle befane che volevano impalmarti coi loro mocciosi.

      Ma tu rimanesti la bella dal giardino incantato nel quale i tuoi ispidi zii solevano tendere il roccolo per uccellare nel grande silenzio; e, appunto per virtù del roccolo, ti destavi al «Francesco mio» dei fringuelli, e accendevi il lume con l'ultimo canto dei malinconici pettirossi i quali escono dalle siepi sulle rame più in cima, a cantare alla luce che muore.

      E il sole era sempre con te.

       Indice

      Guardati dai salti improvvisi, anche se dovesse chiamarti Elena argiva.

      Giusto in quel tempo passasti dai sedici ai diciassett'anni e raccogliesti i tuoi cappelli biondi in una nuova acconciatura.

      Chi ti insegnava ad essere tanto mai bella, Giacometta, ahi, Giacometta?...

      E il mio cuore, povero e inutile vagabondo, stava sempre alla finestra. E tu alzavi gli occhi celesti per vedere la mia ammirazione che si pietrificava nello spasimo. Io stavo diventando un oggetto scemo sul davanzale di una finestra.

      A volte ti udivo ridere di lontano; a volte giungevi di gran corsa tutta affannata e rossa; a volte parlavi con qualcuno... con chi?... con qualcuno al di là del vasto giardino, per il mondo. Parlavi ma non percepivo le parole; udivo bensì la tua giovine calda voce.

      Poi ti si disse, e non so perchè, ch'io avevo licenziato qualche parola rimata per le stampe e ti venne in mente ch'io fossi un poeta, io, nutrito di onesti legumi e coi miei poveri dieci soldi per settimana! I poeti portano le corone di alloro ed io avevo un cappelluccio verdino e tutto spellato come una vecchia gatta e avevo altresì una miseriola di vestito che quasi quasi non mi copriva niente.

      Così le scarpe piangevano dai loro tiranti e la cravattina si faceva sempre più striminzita e lisa e senza natural colore.

      Potevo essere degnamente poeta con simili masserizie? Io ero appena un povero oggetto scemo sul davanzale di una finestra e avevo le scarpe solate di bucce di cocomero.

      Ma tu mi vedevi e bastava questo perchè il mio affanno crescesse a dismisura. Poi siccome le alterazioni dello spirito si ripercuotono nella nostra viva materia, io venivo perdendo l'appetito di giorno in giorno mirabilmente, il che, per le domestiche economie, non era trascurabile.

      La mia formidabile zia, quando eravamo a tavola, io e lei e Salsiccia, il gatto rosso, vedendo il mio piatto vuoto, mi chiedeva stridendo:

      — Perchè non mangi?

      — Non ho fame.

      — Bravo! Chi non mangia ha mangiato.

      E ciò bastava allo spirito di lei che era altruista, mentre io ero un languido giovane che dimagriva dietro le meraviglie del giardino di Giacometta.

      E un altro giorno mia zia, la signora Adalgisa, mi disse:

      — Tu mi sembri Salsiccia nel mese di gennaio, quando si innamora!

      Bisogna sapere che Salsiccia, nel mese di gennaio, diventava il più brutto e magro ed ispido gatto dei dintorni, forse perchè era troppo sensibile e si ostinava a voler darsi appassionatamente a chi non voleva saperne di lui. Ritornava altresì questo gatto, dopo lunghe misteriose assenze, pieno di guidaleschi e mezzo divorato dai rivali suoi soffianti.

      Il paragone turbò la mia bianca estasi e mi destò nei precordi un senso di ribellione; ma tacqui perchè la signora Adalgisa non ammetteva le si potesse dar torto.

      Poi, una volta accadde questo. Ero al mio davanzale, quand'ecco venir di corsa Giacometta.

      Il sole faceva della bianca casa di lei, in fondo al giardino, come una cosa viva. Fiorivan tre mimose lungo il viale dal quale arrivava la mia creatura, fra il cantare e lo zirlare di tutti i richiami del roccolo.

      Quel giorno Giacometta si era vestita come il fiore del lino e aveva negli occhi celesti l'intiera luce di un mare. La sua biondezza passava fra sole e ombra sempre illuminata. Io sentivo tutto il mondo vivere e trasfigurarsi in quella leggera grazia e me ne stavo col più immobile e pallido volto che abbia avuto mai un povero innamorato giovinetto. Ad un tratto si fermò proprio sotto la mia finestra che non era alta più di cinque metri da terra e guardò in su, e sorrise. Io sbiancai ed impietrii come se fosse per toccarmi l'avventura più terribile della mia vita.

      E Giacometta mi parlò.

      — Buongiorno signor... buongiorno signor Coso!...

      La guardai come l'ebete guarda la luna e le risposi un buongiorno in fa minore con una vera voce da lucertola.

      Ella sorrideva ancora.

      — Perchè non discende in giardino?

      Ma poteva darsi tanto?...

      Risposi con la stessa accorata malinconia, puntandomi un dito sul petto:

      — Io?...

      — Sì... lei!...

      O cuore della rondine nel cielo!

      — Ma... signorina Giacometta... io non conosco nessuno!...

      — E che importa?

      — E da dove dovrei passare?

      — Scenda di lì!...

      Misurai la distanza.

      — Ha forse paura?...

      Mi sentii d'improvviso il cuore di Salsiccia; presi lo slancio e caddi con discreta leggerezza, dentro un rosaio.

      Uscii come un povero Cristo, tutto sgraffiato nelle mani e nella faccia: Giacometta si affrettò a chiedermi:

      — Si è fatto male?... Venga qua, che le tolga le spine.

      Le porsi le mani, e, sulla cima di ogni dito, c'era il mio rosso cuore che ballava la furlana. Mi sentivo arder la faccia ch'era color della brage.

      — Dio... quante ce ne sono!... — disse lei. Ed io dissi:

      — Infatti sono molte...

      — Le faccio male?

      — Non mi pare!

      — Povero signor Coso!

      Perchè poi, Coso, se mi chiamavo Francesco?

      Sentivo le sue mani tepide, fini, delicate sfiorare le mie; vedevo il suo viso di mandorla, la sua testa bionda china sulle mie mani e abbrividivo come una minugia.

      Ad un tratto mi prese una vampata al capo che mi fece veder tutto rosso e mi fece dire senza che neppure me ne accorgessi:

      — Signorina Giacometta... io l'amo!...

      Ella mi guardò dal sotto in su, sorridendo e rispose calma calma:

      — E non sa dirmelo un pochino meglio?...

      Riprese, dopo un silenzio:

      — Tanto l'avevo capito. Lasci stare. Da quando ha preso il suo domicilio


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