Alessandro Manzoni, Studio Biografico. Angelo De Gubernatis

Alessandro Manzoni, Studio Biografico - Angelo De Gubernatis


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vita. Egli mi permise, per tratto di grande amorevolezza, in questa occasione a me tanto solenne, di levarlo dall'oblio immeritato, in cui rimaneva da settantasette anni. È, come vedrete, un ritratto fisico e morale che lo stupendo giovinetto faceva di sè stesso; vi è qualche cosa d'ingenuo nell'espressione, ma nel tempo stesso vi si ammira, insieme con una grande e preziosa sincerità, il felice presentimento di una vita lunga e gloriosa.

      Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,

       Naso non grande e non soverchio umìle,

       Tonda la gota e di color vivace,

       Stretto labbro e vermiglio, e bocca esìle.

       Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,

       Che il ver favella apertamente o tace;

       Giovin d'anni e di senno, non audace,

       Duro di modi, ma di cor gentile.

       La gloria amo e le selve e il biondo Iddio.[2]

       Spregio, non odio mai; m'attristo spesso,

       Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.

       All'ira presto, e più presto al perdono,

       Poco noto ad altrui, poco a me stesso,

       Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

      Quest'ultimo verso profetico mi scioglie dall'obbligo di qualsiasi commento. Vi è qui tutto l'afflato del genio potente, che doveva rivelare al suo secolo ed alla sua terra una nuova poesia.

      [1] Anche nell'Urania, il Manzoni dice ch'egli ambì la fama di poeta italiano fin dai passi primi nel terrestre viaggio:

      Da' passi primi

       Nel terrestre viaggio, ove il desio

       Crudel compagno è della via, profondo

       Mi sollecita amor che Italia un giorno

       Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga.

      [2] Variante: "Di riposo e di gloria insiem desìo."

       Indice

      Il Manzoni ed il Parini.

      Nella sua prima maniera satirica il Manzoni parineggia; il Parini, egli non avea conosciuto di persona, se bene lo potesse per le relazioni che il poeta di Bosisio avea avute con la famiglia Beccarla. Quando il Parini morì, il Manzoni, quattordicenne, incominciava già a sentire la poesia e ad ammirare veramente i poeti; si narra anzi ch'egli leggesse per l'appunto la celebre Ode La caduta, quando gli venne annunciato che il Parini era morto.[1] Il Manzoni vecchio dolevasi con Giovanni Rizzi di non averlo cercato, e scusavasi malamente col dire che allora egli era "un ragazzaccio che non sapeva nulla di nulla." Il vero è che non ci avrà pensato, che non avrà, come accade, creduto il Parini già così vicino a morire, e che la vita di collegio gli avrà pure diminuite le occasioni d'incontrarlo. Che se, al dire di Giulio Carcano, quando, nel Collegio de' Nobili, il giovinetto Manzoni fu, la prima volta, presentato al Monti come nipote di Cesare Beccarla, il Monti gli parve un Dio, è probabile che il vecchio Parini, quantunque non bello, gli avrebbe lasciata nell'animo una impressione più soave e più durevole. Ricordano gli amici del Manzoni che egli sapeva a memoria tutto il Giorno e che, sul fine della propria vita, quando sentiva affievolirsi la memoria, per assicurarsi di non averla perduta tutta, soleva trascrivere a mente qualche verso del suo Parini.[2] Quando, nel settembre dell'anno 1803, il diciottenne Manzoni mandava al suo maestro Monti un Idillio allegorico intitolato: L'Adda, egli lo accompagnava con una lettera, di cui, perchè si vegga quanta destrezza e causticità d'ingegno era già nel giovine Poeta, riporterò qui le prime parole: "Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere che non sono nè l'uno nè l'altro, vi mando questi versi."[3] Il discepolo domanda al maestro un parere sopra i suoi nuovi versi, per limarli, ed, intanto, invita il Monti alla propria villa. Nell'Idillio, il fiume Adda personificato in una Dea si volge così al Monti:

      Te, come piacque al ciel, nato a le grandi

       De l'Eridano sponde, a questi ameni

       Cheti recessi e a tacit'ombra invito.

      L'Adda sa bene di non poter contendere col Po, presso il quale il Monti è nato, e prima di lui Lodovico Ariosto ed il Guarini, ma pur si gloria che presso le sue rive abbia cantato un giorno Giuseppe Parini, l'Orazio lombardo. L'Adda dice:

      Quivi sovente il buon cantor vid'io

       Venir trattando con la man secura

       Il plettro di Venosa e il suo flagello,

       O traendo l'inerte fianco a stento,

       Invocar la salute e la ritrosa

       Erato bella, che di lui temea

       L'irato ciglio e il satiresco ghigno;

       Ma alfin seguïalo e su le tempie antiche

       Fêa di sua mano rinverdire il mirto.

       Qui spesso udillo rammentar piangendo,

       Come si fa di cosa amata e tolta,

       Il dolce tempo della prima etade,

       O de' potenti maledir l'orgoglio,

       Come il genio natìo movealo al canto

       E l'indomata gioventù dell'alma.

       Or tace il plettro arguto e ne' miei boschi

       È silenzio ed orror. Te dunque invito,

       Canoro spirto, a risvegliar col canto

       Novo rumor Cirreo. A te concesse

       Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi

       E le imagini e l'estro e il furor sacro

       E l'estasi soavi e l'auree voci

       Già di sua man rinchiuse. A te venturo

       Fiorisce il dorso brïanteo; le poma

       Mostra Vertunno e con la man ti chiama,

       Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,

       Già mi preparo a salutar da lunge

       L'alto Eridano tuo, che, al nuovo suono,

       Trarrà meravigliando il capo algoso,

       E tra gl'invidi plausi de le Ninfe,

       Bella d'un inno tuo corrergli in seno.

      Nonostante la grazia di questo voluttuoso invito, il Monti non può muoversi, e se ne scusa con una lettera, la quale incomincia cerimoniosamente col voi e prosegue affettuosamente col tu. Loda moltissimo i versi, e conchiude: "Dopo tutto, sempre più mi confermo che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera; e se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali." Nell'amore del Parini fu ancora confermato il Manzoni dall'affetto che lo legò poco dopo alla memoria del più caro discepolo dell'Autore del Giorno, l'Imbonati, dall'ombra del quale, nel noto Carme, ei si fa dire:

      ……Quei che sul plettro immacolato

       Cantò per me: torna a fiorir la rosa,[4] Cui, di maestro a me poi fatto amico, Con reverente affetto ammirai sempre, Scola e palestra di virtù.

      E i consigli dell'Imbonati non sono altro, in somma, se non quelli che si trovano già espressi nei versi sentenziosi del Parini. Il Manzoni sentì che erano veri, e li fece suoi proprii, per seguirne i precetti. Scegliere il vero per farne argomento e fondamento di alta poesia è virtù di pochi ingegni potenti. Il Manzoni non solamente sceglie bene, ma quello ch'egli ha scelto, perfeziona e migliora. Spoglia, a poco a poco, di una parte del loro apparato classico e mitologico i nobili pensieri del Parini e li rifeconda col proprio sentimento, per esprimerli con un linguaggio più caldo e più semplice.

      [1] Tutti ricordano il principio commovente dell'Ode pariniana:

      Quando


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