Alessandro Manzoni, Studio Biografico. Angelo De Gubernatis

Alessandro Manzoni, Studio Biografico - Angelo De Gubernatis


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Declinando imperversa,

       E pioggia e nevi e gelo

       Sopra la terra ottenebrata versa,

       Me, spinto nella iniqua

       Stagione, infermo il piede,

       Tra il fango e tra l'obliqua

       Furia de' carri la città gir vede;

       E per avverso sasso

       Mal fra gli altri sorgente

       O per lubrico passo

       Lungo il cammino stramazzar sovente, ec.

      Il Manzoni vecchio che, per timore di cadere, soleva sempre, quando usciva, farsi accompagnare, dovette spesso pensare al suo Parini. "Una volta (mi scrive il Rizzi), quando egli andava a passeggio, una carrozza signorile passò così accosto a una povera donna che quasi la schiacciava. Avessi veduto che occhi fece, in quel momento! E pazienza gli occhi! Gli scappò nientemeno che questa frase: porchi de sciori! (porci signori!). E tutti intorno la sentirono."

      [2] Le ultime parole trascritte dal Manzoni, per quanto me ne assicura il professor Giovanni Rizzi, furono versi del Giorno.

      [3] Cfr. il libro del signor Romussi, Il Trionfo della libertà.

      [4] Allude all'Ode La educazione, che il Parini scrisse pel giorno natalizio del suo allievo undicenne Carlo Imbonati all'uscire da una malattia, e che incomincia:

      Torna a fiorir la rosa

       Che pur dianzi languia

       E molle si riposa

       Sopra i gigli di pria.

       Brillano le pupille

       Di vivaci scintille.

      Questi versi sentenziosi del Parini dovettero far pensar molto il

       Manzoni, e persuaderlo; il Carme In morte dell'Imbonati ha perfetto riscontro di pensieri ed anche di parole con essi:

      Dall'alma origin solo

       Han le lodevol opre.

       Mal giova illustre sangue

       Ad animo che langue.

       —Chi della gloria è vago

       Sol di virtù sia pago.

       —Giustizia entro il tuo seno

       Sieda e sul labbro il vero.—

       —Perchè sì pronti affetti

       Nel core il ciel ti pose?

       Questi a Ragion commetti,

       E tu vedrai gran cose.

       —Sì bei doni del cielo,

       No, non celar, garzone,

       Con ipocrito velo,

       Che alla virtù si oppone.

       Il marchio, ond'è il cor scolto,

       Lascia apparir nel volto.

       Dalla lor mèta han lode,

       Figlio, gli affetti umani.

      Si può, si deve combattere per la patria, ma chi vince

      Pietà non nieghi

       Al debole che cade.

      Soccorriamo il povero, e l'uomo si mostri fido amante e indomabile amico. Il Giusti, nell'Elogio del Parini, scriveva: "La Lombardia perdè il suo poeta e non poteva cadere in mente ai cittadini, che lo piangevano, di consolarsene nel caro aspetto di un fanciullo di tredici anni ch'era allora in Milano e che di lì a poco fu quell'uomo che tutti sanno." Il Manzoni avrebbe pure potuto far propria la famosa strofa dell'Ode pariniana, La vita rustica:

      Me non nato a percotere

       Le dure illustri porte,

       Nudo accorrà, ma libero,

       Il regno della morte.

       No, ricchezza nè onore

       Con frode o con viltà

       Il secol venditore

       Mercar non mi vedrà.

      Il Manzoni vide pure, come il Parini, nell'educazione un mezzo per

       rialzare non solo i costumi, ma la patria infelice ed oppressa.

       Nella Canzone: Per l'innesto del vaiuolo, il Parini intese anco a preparar fanciulli sani, perchè potessero un giorno dar prova

      D'industria in pace o di coraggio in guerra.

      Nell'Ode: L'educazione, facendo apostrofare da Chirone il giovinetto Achille

      Nato al soccorso Di Grecia,

      il Parini rammenta al giovine Conte lombardo che può intraprendere ogni più ardua impresa per la patria

      Un'alma ardita, Se in forti membra ha vita.

      Così la poesia pariniana non è un vano giuoco, come non saranno mai pel Manzoni le lettore; tutta la sua letteratura è civile, anche dove scopre meno direttamente il suo intento educativo.

       Indice

      Il Trionfo della Libertà.

      Il Manzoni, per sua natura, s'accostava, invero, più al fare un po' rigido del Parini che a quello pieno ed ampio, ma un po' reboante del Monti; quindi il Monti, che pur lo lodava tanto, desiderava in lui alcuna maggiore larghezza e rotondità di frase, ossia, come diceva, "un po' più di virgiliana mollezza," che si sarebbe ancora definita convenientemente "pastosità lombarda." Nel Sonetto giovanile che vi ho già riferito, il Manzoni si accusa da sè stesso come "duro di modi." Questa durezza è pure un poco nella sua poesia, quando alcun sentimento specialmente soave e vivace non viene a commuoverlo, obbligando il critico arcigno a tacere innanzi al poeta commosso. Tuttavia il Manzoni, negli anni de' suoi studii a Pavia, più tosto che un alunno e un ammiratore del discreto, austero e parco di versi tessitor, ci si dimostra un seguace dell'impetuoso Monti, verseggiatore facile, ad un tempo, e solenne ed altitonante, dal quale egli dovette pure avere appreso a studiare e ad imitar la Divina Commedia.[1] Dall'Autobiografia del medico inglese Granville, il quale nell'anno 1802 studiava la Medicina nell'Università di Pavia, rilevo che, in quell'anno medesimo, egli vi conobbe il Manzoni, il quale doveva esservisi recato per frequentare specialmente le lezioni di eloquenza italiana di Vincenzo Monti. Sappiamo ancora che il Monti, dalla sua cattedra di Pavia, fulminava dantescamente il governo temporale de' preti, parlava alto dell'amore di Dante per la patria e per la libertà. Le impressioni ricevute a quella scuola si rivelano chiaramente nel primo componimento manzoniano che si conosca, un poema in terza rima, diviso in quattro canti, intitolato: Il Trionfo della libertà, scritto ad imitazione dei Trionfi del Petrarca, e con molte reminiscenze della Divina Commedia, della Bassvilliana e della Mascheroniana del maestro Monti; il Manzoni lo concepì e lo scrisse fra il 1800 e il 1801, il che vuol dire tra il fine del suo quindicesimo e il principio del suo sedicesimo anno. Rileggendo alquanto più tardi il suo lavoro giovanile, il Manzoni, che lo poteva fare, poichè non s'era pubblicato, non lo distrusse; ma si contentò di porvi su la seguente Avvertenza: "Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza e presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo." L'Avvertenza manca di quella lucidità e naturalezza che divenne, specialmente nella prosa, uno de' privilegi dello stile manzoniano, il che mi fa naturalmente sospettare che risalga essa stessa ad un tempo, nel quale il Manzoni, non più giovinetto, ma pur sempre giovanissimo, non era ancora interamente padrone di sè come prosatore, e probabilmente all'anno, in cui egli scriveva la faticata Urania. Il Manzoni parlando di un ritratto che gli aveano fatto in


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