Storia di un'anima. Ambrogio Bazzero
solitudine, non uno spettacolo di varie civiltà, e da quello vedere il mio orizzonte, cioè i guadagni che potrei fare per la mia famigliuola.
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Mille volte dico: voglio su qualche foglietto di carta lasciare traccia dei miei patimenti, per farmi conoscere dai miei quando frugassero fra le mie carte. Io scrivo, a sbalzi, pel mio cassetto, molte volte rattenendo le lagrime di tenerissima commozione, molte volto imprecando con voluttà mefistofelica a Dio!—Ci voleva tanto poco per farmi felice! Non ricchezze, non gloria, non nobiltà, non i soliti meccanismi della società domandavo: domandavo pace, sacrificio, religione, fede: avevo coscienza di fare un sacrificio, la coltivavo, mi accosciavo due volte al giorno, per voto, in una chiesa, ero buono una volta. Che ho ottenuto? Poveri miei anni, dai diciolto ai venticinque!
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Che cosa è la vita dell'uomo? Nient'altro che la spuma dell'onda che si dibatte fra gli scogli misteriosi dell'Infinito. Ma se un riflesso di cielo può dare l'azzurro alla spuma fuggitiva, un riflesso d'amore può dare alla vita i colori della Fede, della Speranza e della Carità.
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Ricordo, colle lacrime al cuore, che vi fu un anno, in cui, in alcune sere stellate, quando dimenticavo il mio corpo, quando dimenticavo il mondo esterno, e il mondo interno mi signoreggiava, e mi sentivo, e volevo credere, e sperare, e amare, ricordo che in alcune sere stellate, soavissime, confidentissime, ebbi vicino a me un'anima che mi ascoltò e mi comprese, quand'io espressi qualche speranza pel mio avvenire, avvenire che io legavo all'arte e alla famiglia. In quelle sere io accrescevo di dignità alla mia coscienza, io mi dichiaravo non volgare, mi mostravo uomo, e confidando, credevo, speravo, amavo…. Furono gli unici conforti: li ricordo: e allora, perchè a metà svelate, mi parvero più sante le mie melanconie, i miei silenzi, i miei dolori, il mio carissimo e soavissimo tifo, sì, la mia religiosa convalescenza, le mie dolcissime Confidenze, i miei sessi profumi, e il mio risveglio, il mio Tintoretto…. il mio Giuliano! Ho ricordato queste cose per dire che a quell'anima (come pensi ora di me, e come penserà, se vivo, non so) vorrei fossero consegnate queste mie annotazioni, s'io morissi, perchè, almeno in lei la mia memoria vivesse un po' consacrata, non come quella che lascierei a mia madre o a mio padre, la memoria di un povero figliuolo: e basti la compassione. A Lidia non oso destinare una sola riga: a che pro? Se mi volle un po' di bene ed ebbe poi tempo di dimenticarmi, perchè svegliare in lei, non dirò un rimorso, ma una cura fastidiosa? Così vivendo e morendo faccio sacrificio di speranze. A che pro io ebbi rimorsi, e per esser felice, mi tormentai? A che pro? A che pro non so correggermi?
Scriverò anche stassera? Oh sì che ne ho immenso bisogno! Mi sentivo buono, ma deserto, ma ridicolo, ma quasi reietto dalla società, avevo voglia di piangere e gettai le braccia al collo di mia madre. Oh mia madre! mia madre! Se tu fossi il mio tesoro, la mia pace, la mia religione, se in ogni tristo mio momento potessi posare la mia testa sulla tua! Tu hai scoperto che io piangevo, e mi hai detto:—La tua fronte scotta!—O mamma, in questa povera testaccia bollono tanti pensieri, ma resteranno sempre cozzanti e inconcreti perchè la mente ha perduto ogni forza di studio: mancò al cuore l'alito primo: l'ambizione non mi seduce più: se avessi denari, libertà e cattiva natura, questo sarebbe stato l'anno in cui sarei diventato vizioso! Coi vizi almeno avrei vissuto; col ricordo della virtù, colla stizza dell'impotenza al male, col vano attendere, colle spossatezze, coi fremiti del dì d'oggi vivo neghittoso. Vivo? Vegeto, inutile pianta. Nessun scopo alla vita: sono deserto. A venticinque anni….
Mia madre è venuta qui, mi ha baciato, mi ha domandato che cosa ho?—Ho un mondo a rivelarle: non so da che parte incominciare: l'ho quasi respinta col dirle:—Lasciami stare, lasciami stare—quasi che lei fosse indegna di ascoltare le mie confessioni. Sempre così!… Respinta, si tace, soffre, forse come me, forse più di me, e fingendosi tranquilla mi domanda se le voglio bene. In questa promessa vuole ch'io le racchiuda una sacra promessa; ella forse teme…. Ha concluso con una sola parola:—Tu sei troppo buono!—Oh mamma, mamma, lasciami questa illusione: tu, cioè, non mi credi originale. O mia mamma, questa parola buono sulle tue labbra ha avuto un accento nuovo e sicuro: anche quand'ero piccino mi dicevi ch'ero buono. Anche oggi l'hai detto, e hai capito che dentro di me si compiono dei sacrifizi. O mamma, ti voglio tanto bene. E vorrei esser felice per raccontarti tutto, per farti esultare di tutte le mie umili contentezze, per avere in te l'interprete sincera delle gioie dell'anima mia. Passo dei giorni squallidi, tristissimi, meschini, lo vedi…. No, mamma, nella mia superbia dell'affetto, nelle mie gelose fantasticaggini, nel mio deserto, mi pare quasi d'esser fanciullo, volendoti bene, e m'infingo: ma invece dove sei tu, c'è il mio angiolo: tu angiolo di verità, di rassegnazione, di fede, di speranza, di mitissimo amore, tu mamma!
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Ieri, verso sera, ho veduto una bambina coi capelli biondi, colle pupille azzurre, una poverina che sedeva sui ciottoli, senza pensiero, col sorriso dei suoi otto anni. La mirai a lungo. Pensando che s'avvicinava la sera e a casa mi aspettava la minestra calda col buon brodo, e la carne, e la lucerna allegra, e la tovaglia di buon augurio, avrei voluto condurla con me e darle la mia parte, e sorriderle…. Che cosa avevo io fatto nel giorno per trovarmi servito, scaldato, allegrato? Povera bimba!—Lo dissi alla mamma:—Una bimba come quella non oserei sognarla mia,—e tacqui. La mamma mi raccontò che quella sgraziata aveva una matrigna che la trattava a busse e le faceva soffrire la fame. O mamma, quanto avrei voluto baciarti: mi riconciliai con tutto, con tutti, volli fugare i miei fantasmi di dolori, volli che tu fossi il mio tutto. Come potrei io dedicarmi a te? oscuramente, ma santamente provarti sempre che t'amo e contrapporre alle mie sciocche ambizioni, all'amor proprio trafitto, alle vane gare in cui sanguina il cuore inutilmente, contrapporre il tuo affetto sempre placido, sempre religioso, sempre benedetto, non mai ridicolo?
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O Lidia, Dio è l'ironia!—Il buio!
ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1876.
Domenica, 31 dicembre.
Mancano tre ore e l'anno sarà finito. Queste tre ore voglio sentirle minuto per minuto, voglio goderle…. Come le gode la gente pratica del mondo? Divertendosi e gozzovigliando. Stupenda filosofia! io come le godo? Le godo sgroppando un'uscita al pianto segreto che mi arroventa il cuore: è una consolazione:—sorridendo un po' a qualche pallida fantasia della mia religione: è una poesia! So che è poesia inutile, ma a me è tanto cara.
Sono solo nel mio studiolo. Papà, mamma, Carlo sono andati or ora a teatro, proprio quand'io salivo le scale per chiudermi quassù. Ed or ora ho lasciato il Bianchi che mi ha complimentato gentilmente dicendomi un paio di volte «che bel tipo! originale!» perchè lui va a teatro, e io torno a casa a capo chino.
Sono solo e sono triste. Vorrei scrivere ordinatamente, ma non posso. Sebbene, chiusomi quassù, avessi tutta l'intenzione e il bisogno di scrivere, di scrivere, di scrivere. A che? per chi?
Che cosa spero pel 1877?
Milano. Mercoledì, 21 novembre 1877.—Sono da pochi giorni arrivato dalla campagna: ed ho il mio studiolo freddo, polveroso, abbandonato, tristo e perciò sto a disagio al tavolo. Coll'anima stanca, col cuore senza fede, coll'ingegno assopito, con grandi dolori—ma senza lutti officiali al cappello—bisognoso di vita, di vita, di vita, freddo a numerare le mie illusioni cadute, freddissimo a pensare al futuro, ti mando un bacio. Aggradiscilo come bacio di fratello. Pensa che mi sento il cuore gonfio d'un'arcana bontà, pensa che io piango, e che piangendo sento il bisogno di un'anima, e pensa che dinnanzi all'altare di un'altra anima che mi comprendesse, io pregherei ancora Dio, perchè mi sento casto, gentile, serio: e dinnanzi ai santi balbettamenti di un bimbo capirei—con quanta vita del cuore!—che l'arte per cui ho sofferto tanto, addoppiando me stesso, era un bisogno imperioso di creare; che la scienza di queste Accademie è il deserto, il vuoto, il nulla, o il tritume, la polveraglia dei morti: che gli anni di mia giovinezza erano un voto: che i miei tormenti, le mie fedi, il mio scetticismo, le mie speranze, le mie battaglie, il mio isolamento nella folla, il mio sdegno pei volgari, le mie povere