La Repubblica di Venezia e la Persia. Berchet Guglielmo

La Repubblica di Venezia e la Persia - Berchet Guglielmo


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signore della Persia, le quali portavano le seguenti iscrizioni così ricordate dal Sanudo nei suoi diarii[58].

      Da una parte:

      « Soldam, Ladel, Elchemel, Elhadi, Sainsa, Elmoda, Ismail Sain, Chaledule Melche (El Signor giusto, compido, corredor, re dei re, el victorioso Ismail mundo et puro, Iddio fazi el so regno eterno) ».

      E dall'altra parte la formula religiosa dei Persiani:

      « Lailla, Lhalla, Mahumet Resulhalla, Uhalì, Ulihalla (Un solo Dio, un solo messo Maometto, un sanctissimo Ali) ».

      E due anni appresso Ismaìl reso ancor più potente per felici imprese, e nemico a Bajezid per la diversità della religione e la gelosia del dominio nell'Asia, mandò formalmente oratori a Venezia per chiedere alleanza, conforme a quella che Caterino Zeno aveva conchiusa con Uzunhasan[59].

      Ma per quella fatalità, che ha poi sempre impedito la effettuazione del grande concetto politico dei Veneziani, in quel tempo medesimo i principi cristiani congiurando a Cambray contro Venezia, la posero nella necessità di lasciarsi sfuggire la vagheggiata occasione.

      Il senato ricevette il primo annunzio di questa intenzione del sufì dal console a Damasco Contarini, con dispaccio 4 marzo 1508[60]; quindi nel settembre dello stesso anno il provveditore di Napoli di Romania scrisse ai capi del Consiglio dei Dieci, che di notte secretamente erasi a lui presentato un messo del sufì della Persia « per pregarlo di informare il veneto senato che il suo re era amico dei cristiani, veniva a rovina del Turco, voleva bene a san Marco et alla signorìa, ed aveva fatto penetrare il suo esercito nell'Anatolia[61] ». Finalmente colla nave di ser Francesco Malipiero arrivarono a Venezia due oratori, uno persiano ed uno caramano, con lettera di Ismaìl tradotta dal console Pietro Zeno, la quale, accreditando i suoi ambasciatori, esprimeva la buona amicizia che il re persiano portava alla repubblica, ed il suo desiderio di stringerla maggiormente e più efficacemente[62]. Accolti essi cortesemente dal senato, furono a spese pubbliche alloggiati nel palazzo Barbaro a s. Stefano dove abitava l'oratore di Francia.

      Pochi giorni dopo si presentava in collegio il solo ambasciatore persiano, colla formale domanda d'Ismaìl: che gli fossero mandati dall'Italia per la via di Sorìa maestri che gettassero artiglierie; e che la veneta armata tenesse occupato Baiezid nella guerra di mare presso alle coste della Grecia, mentre egli lo avrebbe chiamato a battaglia nell'Asia minore.

      Il collegio ricevette onorevolmente l'ambasciatore persiano; ma gli fece rispondere dai savi « che i Veneziani si ricordavano molto bene la buona amicizia e la lega che avevano stretta col re di Persia, che essi erano molto contenti che il sufì fosse nemico dei Turchi, avesse pensato di comunicare alla repubblica l'interesse della guerra, e promettesse quelle cose, le quali se Uzunhasan avesse mantenute non vi sarebbe forse più stata occasione di muover guerra agli Ottomani; ma che tali erano i cambiamenti delle cose del mondo, che siccome in quel tempo il persiano non pensò o non potè ritentare la sorte delle armi, così ora la repubblica trovandosi in gravissima condizione, non poteva far ciò che pure ardentemente desiderava, avvegnachè era occupata in una importantissima guerra, mossale dai più potenti sovrani d'Europa che avevano congiurato a Cambray, non provocati da ingiuria alcuna, ma solo eccitati da invidia della felicità dei Veneziani ».

      E però si commetteva al persiano di riferire al suo re: che la repubblica avrebbe all'occasione e potendo fatta ogni opera affinchè il sufì conoscesse ch'ella non aveva cosa alcuna più cara dell'amicizia dei Persiani, nè maggior desiderio di quello, di unire alle loro le proprie armi, per frenare od abbattere la prepotenza ottomana[63].

      L'ambasciatore persiano, così licenziato, partì colle galere di Cipro, arrivato in Candia ammalò[64]; quindi passato nella Siria, tenne ragionamento segreto con Pietro Zeno console veneto in Damasco sulla probabilità di un prossimo concorso della veneta armata colle forze persiane.

      La qual cosa essendo venuta a cognizione del sultano del Cairo, egli altamente se ne adirò, rispetto particolarmente alle minaccie fattegli da Bajezid, per aver tollerato che nei suoi stati, ministri persiani congiurassero contro di lui; laonde ordinava la immediata carcerazione dello Zeno, e del console veneto in Alessandria, Contarini.

      Scriveva allora il senato al sultano[65]: non aver avuto la veneta signorìa alcuna ingerenza in quei discorsi, che se pur fossero stati fatti erano di carattere meramente privato, nè alcuna notizia di que' nunzi... « Se questa po' è causa de romper una tanto longa amicizia lo lassemmo al savio parer del sultan. No giustifichemo cosa alcuna, solo dicemo la verità[66] ».

      Lo Zeno ed il Contarini tosto furono posti in libertà; ma non essendo cessato del tutto il mal animo del sultano per la venuta in Venezia degli oratori persiani, il senato commetteva a Domenico Trevisan, eletto nel 22 dicembre 1511 ambasciatore straordinario al Cairo per affari di commercio, di cercare ogni mezzo e via di calmarlo « rappresentandogli che la loro venuta non fu ad alcuno male efecto, ma solum per comunicare le occorrenze et li successi del loro signor, el qual mostrava di esser affetionato alla signorìa nostra, et ai quali fu in corrispondenza con parole generali risposto, com'è costume della signorìa nostra de fare con tutti[67] ».

      Di questa ambasciata Domenico Trevisan lesse in Pregadi a' 24 di ottobre 1512, la stupenda relazione riportata dal Sanudo[68], e Pietro Zeno narrò pure lungamente i suoi casi nel gennaio dell'anno seguente[69].

      E quella non fu la sola volta che i Veneziani nella Siria mostrassero troppo chiaramente lo interesse della repubblica per la Persia, mentre si ha notizia di un Andrea Morosini, rinomatissimo pel vasto negozio di mercatura in Aleppo, che fu fatto morire per avere nell'anno 1526 sovvenuto di danari e di cavalli Roberto ambasciatore di Carlo V, che passava in Persia[70].

      Posto fine colla pace di Bologna, 1529, alla guerra che slealmente aveano mossa i principi cristiani alla repubblica, essa ricominciò a guardare all'oriente verso il naturale suo nemico, e a seguire colla più viva attenzione le vicende delle guerre che ferveano nell'Asia fra i Turchi ed i Persiani.

      Riferiva in senato a' 3 di giugno Daniello Ludovisi segretario, ritornato da Costantinopoli[71], che quantunque le forze del re di Persia, limitate a cento e ventimila cavalli, non si potevano ritenere in caso di contrastare felicemente col Turco, la gran difesa di quel regno consisteva nel ritirarsi, spogliando il paese di ogni sorta di vettovaglie; ed il bailo Bernardo Navagero nel 1553[72] assicurava che il sufì era poco meno che adorato dai suoi sudditi e temuto assai dal Turco, il quale non potrà avere mai nemico maggiore del re di Persia, per la differenza della religione e per la condizione rispettiva dei loro Stati.

      Daniele Barbaro presentava nello stesso anno 1553, una relazione della guerra di Persia mossa da Suleiman per vendicare la infelice spedizione del 1548; la quale relazione, pubblicata siccome anonima dall'Albèri[73], è ricca di curiose ed importanti notizie; bella soprattutto per tre minute descrizioni: della fine miserabile di Mustafà figliuolo di Suleiman fatto strangolare per ordine del padre; della città di Aleppo; e della pomposa entrata che vi fece il padishàh.

      Ricordava il bailo Domenico Trevisan sul finire dell'anno 1554[74] essere il sufì l'unico impedimento al gran signore di impadronirsi di tutta l'Asia.

      Ed Antonio Erizzo ritornato da Costantinopoli nel 1557, narrando i particolari della guerra turco-persiana finita colla pace di Amasia nel 1555, considerava[75] il manifesto pericolo che dalla parte della Persia sovrastava alla Turchia, ed il mal animo del gransignore contro quel re, del quale avrebbe voluto più presto la rovina che di qualsivoglia altro, ancorchè cristiano.

      Marino Cavalli nel 1560 riferiva in senato[76] che il gransignore assai temeva il re della Persia per la possibilità sua di sollevargli alle spalle tutto il paese, quando egli fosse in guerra coi cristiani; e faceva constare che soltanto tre cose potevano condurre a rovina l'impero ottomano, cioè: I. Le divisioni ed i dissidii interni. II. La corruzione del governo e la vita licenziosa, avara e sensuale di quei popoli. III. Un re di Persia valoroso che, fatta la pace coi Tartari suoi confinanti, volesse ricuperare il suo, coll'aiuto dei principi cristiani: aiuto che, secondo il Cavalli, avrebbe dovuto prestarsi per almeno cinque o sei anni, dacchè « non bisogna pensar di soggiogar mai i Turchi, nè vincerli, se non ammazzandoli, come essi fecero dei Mamelucchi, e questo non si potrà fare in poco tempo, nè con due o tre battaglie


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