Prose (1880-1890). Cesare Pascarella

Prose (1880-1890) - Cesare Pascarella


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       Cesare Pascarella

      Prose (1880-1890)

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066069513

       MEMORIE D'UNO SMEMORATO

       IL MODELLO

       IL MANICHINO

       IN CIOCIARIA

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       IL PIANTO DELLE ZITELLE

       I.

       II.

       III.

       MONTE GIANO

       I.

       II.

       UN CONGRESSO ALPINO (1887)

       GITA SENTIMENTALE

       LE “CAPANNE„ DI RIPETTA

       IL MIO PELLEGRINAGGIO

       CARCIOFOLATA

       IL CAFFÈ GRECO

       Indice

      Nello studio dove eravamo non si poteva più vivere. Si stava in una soffitta al sesto piano di un casamento altissimo, dove, nell'estate si bruciava come in un forno, e nell'inverno, nei giorni di pioggia, anche i quadri ad olio diventavano all'acquarello. E come se questo fosse poco, sotto a noi abitava la più numerosa e più filarmonica famiglia che io abbia mai conosciuto, il cui capo, un omone con un barbone nero che gli scendeva fin sulla pancia, era impiegato nelle regie poste e suonava il trombone. Quando tornava in casa, mentre la moglie gli apprestava il desinare, egli si metteva a soffiare nel suo strumento e cominciava il terremoto.

      Le sue figliuole poi, non facevano altro che tormentare un povero pianoforte con la coda, il quale mandava certi suoni, emetteva certi lamenti e certi guaiti, come se gliela pestassero.

      Un giorno, mentre il trombone del nostro vicino brontolava più fastidiosamente del solito, il mio compagno di studio, misurando l'angusta soffitta col passo dell'uomo che ha da dire cose gravi, mi confidò come un nuovo tormento venisse ad aggiungersi al trombone e al pianoforte.

      — A coda! — mormorai io.

      — Già. Ed è a coda anche il nuovo istrumento di tortura.

      — Cioè?

      — Guarda! — mi disse allora l'amico; e aperta la finestra mi accennò una gabbia di vimini, entro la quale nereggiava un merlo spennacchiato. Poi richiuse le imposte e incominciò a discorrere per provarmi che noi due, lì dentro quella soffitta, ci logoravamo inutilmente l'intelligenza; che bisognava trovare uno studio decente; che non era possibile rimanere più a lungo in quel bugigattolo. E incrociando le braccia sul petto concluse: — Non hai mai pensato che se ci dessero l'ordinazione di dipingere un gran quadro saremmo costretti a rifiutarla per mancanza di spazio?

      — Sarebbe doloroso.

      — Per noi e per l'arte nazionale.

      Insomma, restammo d'accordo sulla necessità assoluta di metterci alla ricerca di uno studio, dove, se mai qualcuno ce l'avesse chiesto, avremmo potuto dipingere il gran quadro, senza i borborigmi del trombone, senza i guaiti del pianoforte e senza i fischi del merlo.

       * * *

      Di studii se ne videro molti in via Sistina e lungo la via Margutta, nei nuovi quartieri e pei vicoli popolosi e pittoreschi della vecchia Roma. Alcuni avevano l'ampio finestrone aperto sui giardini e sui cortili, altri ricevevano la luce da una larga finestra aperta nel mezzo del soffitto. Quasi tutti conservavano sulle pareti le tracce di coloro che li avevano abitati, e sulle porte riverniciate di fresco si leggevano ancora nomi d'artisti e di modelle, sentenze e appuntamenti commentati allegramente da caricature e disegni.

      Su la porta di uno di tali studii leggemmo questa iscrizione, che non m'è più uscita dalla memoria: Quando si sta dentro e non s'apre a chi bussa è una porcheria. Sono stufo di camminare e metto le carte in mano all'avvocato.

      Quale dramma, racchiuso in così poche parole!

      Fra i tanti studii da noi visitati l'unico che ci piacque fu un comodo stanzone in via Margutta; ma quel che non ci piacque affatto furono le ottanta lire al mese che ne chiedevano di pigione.

      — Ottanta lire, come vedono, è tutt'altro che caro — ci diceva il suo proprietario accompagnandoci e sbatacchiando due chiavette con la destra. — E poi, come vedono — proseguiva — questo studio ha tutti i comodi: due porte, — e strizzava maliziosamente un occhio — acqua da bere...

      — E questo è il guaio.

      — Perchè?

      — Perchè, — ripresi subito io mestamente — c'è qui il mio amico che all'età di sette anni ebbe la sventura di morire annegato nel Tevere, e da quel momento non può più soffrire la vista dell'acqua. — E mentre il padrone, che aveva finito di giocherellare con le chiavette, ci guardava trasecolato, noi ce ne andammo.

      Finalmente, lo studio che ci conveniva lo trovammo in un misero fabbricato fra le vigne e gli orti, fuor di una porta della città.

      Il fabbricato dai muri scalcinati e anneriti, sui quali si abbarbicavano piante parassite, si sarebbe scambiato a prima vista per un vecchio fienile se sulla porta d'ingresso non vi fosse stata inchiodata una targa di legno su cui sbiadita dal tempo si leggeva questa iscrizione: STABILIMENTO DI STUDII DI PITTURA E SCULTURA.

      Difatti


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