Prose (1880-1890). Cesare Pascarella

Prose (1880-1890) - Cesare Pascarella


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stanze che servivano d'incomodo asilo agli artisti, nello stabilimento ce n'erano anche altre tre le quali, benchè in origine fossero state costruite anche loro per essere consacrate all'arte, avean finito con l'esser destinate all'industria. Nella prima abitava una torma di lavandaie e di stiratrici; nell'altra dimorava un vecchio contadino le cui figliuole all'occorrenza si adattavano anche a far da modelle; l'ultima era nè più nè meno che uno spedale per i cani, diretto da una vecchia popolana che a vederla quando cuoceva i medicamenti per le sue bestie inferme tra il fumo che usciva dalle pentole, pareva una strega che preparasse filtri per qualche incantesimo.

      Il padrone dello stabilimento quando andammo a proporgli di cederci in affitto una stanza che stava per essere abbandonata da un pittore triestino, ci accolse affabilmente. Era in manica di camicia; e poichè il sole splendeva in quel giorno più del solito, ci forzò a sederci su un murello, accanto alla porta della sua casa, per fare insieme quattro chiacchiere. Ci parlò del Vaticano, della Sistina, del Bramante, di Michelangiolo, di Raffaello, e poi volle anche raccontarci la eroica difesa di Roma del quarantanove alla quale egli aveva preso parte; e non smise, se non quando la sua serva venne ad annunciargli che il pranzo era pronto. Allora, dopo averci chiesto i nostri nomi, e averli segnati con un mozzicone di lapis in un libricciuolo foderato di cartapecora, ci lasciò dicendoci che nel pomeriggio potevamo andare a pigliar possesso dello studio.

      — Andateci pure — ci disse — e il triestino prima di andarsene vi consegnerà le chiavi.

      Nel pomeriggio tornammo nello stabilimento con le nostre cartelle; salimmo una scaletta; traversammo un corridoio oscuro, e picchiammo alla porta del triestino.

      Un concerto di furiosi abbaiamenti e guaiti ci rispose dal fondo del corridoio.

      S'udì una voce urlare per rabbonire i cani irritati, e poi... Silenzio.

      Bussai di nuovo più forte.

      — E avanti perdio! — tuonò, allora, una voce minacciosa di dentro allo studio. E noi, entrammo e restammo ritti, impalati vicino all'uscio.

      Nello stanzone un giovinotto radunava in una cartella alcuni disegni. Qualche quadretto stava gittato in terra, e un tavolino a tre gambe s'appoggiava al muro per non cadere.

      — Buon giorno — disse il giovinotto senza neppure guardarci.

      — Buon giorno! — rispondemmo noi all'unisono, e, posate in terra le nostre cartelle, restammo silenziosi a guardare la figura magra e donchisciottesca del pittore che dopo di aver chiuso nella cartella i disegni s'era messo a raccogliere in una piccola valigia alcuni pezzi di stoffa.

      Quand'ebbe chiuso con una cordicella la valigetta si volse verso di noi e: — Se vogliono accomodarsi — ci disse — non facciano complimenti. — Nella stanza non c'era neanche l'ombra di una sedia.

      Il pittore, allora, radunò entro un largo foglio di carta sudicia una quantità di boccette vuote, di pennelli logori e di colori andati a male; s'avvicinò al finestrone e li gittò fuori; quindi andò in un angolo dello studio, prese due ciabatte vecchie e le lanciò con forza fuori della finestra. Le due ciabatte mulinarono un istante sul cielo nuvoloso come due uccellacci neri, e scomparvero.

      Intanto aveva cominciato a piovere, e il giovinetto come se ne provasse piacere, seguitava sempre a gittare gli oggetti inutili dalla finestra; poi, crescendo la furia dell'acqua, richiuse la vetrata e portandosi le mani ai fianchi, facendo arco della schiena, mugolò con voce nera: — Accidenti alla pittura e a chi l'ha inventata — E volgendosi ancora a noi, che eravamo sempre lì ritti come due coristi, seguitò: — Me lo sanno dire loro chi l'ha inventato questo flagello di Dio?

      — I greci! — risposi io prontamente.

      — Allora accidenti alla Grecia! — riprese con voce sicura il giovinotto; e appoggiando i gomiti al davanzale della finestra, rimase a guardare, col naso sui vetri, la campagna grigia che si distendeva sotto la pioggia dirotta fino ai colli ultimi ove si perdeva nel cielo tempestoso.

      — Bah! — borbottò poi volgendosi bruscamente, come se volesse scacciare i pensieri tristi — non ci pensiamo! — E presa la valigetta e una cartella, soggiunse: — Stiano bene. Me ne vado. Ecco la chiave.

      — Con quest'acqua?

      — Ci sono abituato — ribattè il pittore alzando le spalle; e pigliato un disegno che aveva lasciato sul tavolino a tre gambe (una testina di ciociara segnata coi pastelli) porgendolo a noi, disse sorridendo: — Lo terranno per mio ricordo.

      — Grazie! Ma lei non se ne va, ora. — disse il mio amico sbarrandogli la via dell'uscio.

      — Non posso trattenermi, debbo partire.

      — Parte?

      — Vado a Napoli.

      — Ma allora, le vogliamo augurare il buon viaggio. Qui sotto c'è un'osteria?

      — Pur troppo! — fece il pittore.

      L'acqua intanto rinforzava e il mio amico uscì e tornò di lì a poco, con un litro e tre bicchieri.

      — Alla vostra salute e alla vostra fortuna.

      — Alla vostra — soggiunse il pittore, e urtammo i tre bicchieri che mandarono un trillo allegro in quello stanzone triste.

      — Evviva... Evviva... — esclamò allora una voce di sotto alle tavole del pavimento. — Nel mio studio piove acqua e nel tuo piove vino, eh!

      — Oh, Mario! vieni su! — gridò il triestino, chinando la testa verso l'assito.

      — Vengo. — rispose la voce di sotto al pavimento di tavole, e s'udì il colpo d'un uscio che si chiudeva.

      — È lo scultore che sta qui sotto. — Ci disse il pittore: e non aveva finito di dirlo quando la porta dello studio s'aprì ed entrò un giovinotto tarchiato, vestito d'un camiciotto di tela gialla, con in capo un berretto rosso alla turca. Restò sorpreso nel vederci e poi chiese al triestino: — Non sei partito?

      — Parto stasera. Bevi! — E vuotato il resto del vino in un bicchiere, lo porse allo scultore, dicendogli: — Ti presento i nuovi inquilini.

      Noi ci inchinammo ed egli dopo aver toccati col suo bicchiere i nostri: domandò al pittore: — E tu? Non bevi?

      Il litro era vuoto.

      — Aspetta! — fece lo scultore, ed uscì.

      — Bravo giovinotto! Bravo giovinotto! — ci disse il triestino posando il bicchiere vuoto sul tavolino: — È un siciliano; e loro che si trattengono qui...

      — Accidenti come vien giù! — esclamò lo scultore rientrando di corsa, fradicio d'acqua, cavando un litro e un bicchiere di sotto al camiciotto.

      Vuotato il nuovo litro, il triestino ne volle pagare uno anche lui, e allora ognuno trasse di tasca la pipa e s'incominciò a parlare come se ci fossimo conosciuti da cento anni.

       * * *

      Quando abbandonammo lo studio, sul cielo rasserenato brillavano le stelle e un venticello freddo e leggiero faceva svolazzare il fiocco della cravatta allo scultore, che, calcatosi in testa il cappello a cencio, parlava furiosamente, trinciando l'aria con le mani aperte.

      — Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Correggio! — diceva — Eccoli qua questi quattro nomi che ci stanno sospesi eternamente sul capo come quattro spade di Damocle. La forma, il colore, la grazia e il chiaroscuro. E noi eccoci qua a bussare alla porta del gran teatro dell'arte, dove si rappresenta quella bella commedia che è il vero. Cari amici, i buoni posti son presi. Non ci resta se non qualche posto di piccionaia. — E si sbottonava nervosamente la giacca. Poi accese un mozzicone di sigaro e scotendo la testa continuò: — Lavoriamo, sudiamo, sgobbiamo, facciamo la grande statua, il gran quadro; e l'ultimo imbecille che gitterà, passando frettoloso, una occhiata sulla nostra opera che sarà costata a noi tante lacrime e tanto sudore, mormorerà allontanandosi il solito Michelangelo per la forma, l'inevitabile Tiziano pel colore, l'ineluttabile Raffaello per la grazia e l'immancabile Correggio


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