Prose (1880-1890). Cesare Pascarella

Prose (1880-1890) - Cesare Pascarella


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catinella, piena d'acqua marcia.

      Però, ripeto, i vecchi che capitavano fra noi erano sempre pochi. Per lo più ci venivano molti giovinotti; sostavano qualche mese e se ne andavano lietamente.

       * * *

      Ma uno che ci venne pieno di letizia e raggiante di speranza, ci rimase.

      Era un buon figliuolo, piccolo e bruno venuto di Spagna. Il giorno lavorava sempre cantando e la notte dormiva nello studio fra i suoi bozzetti e la sua miseria. Quando sull'imbrunire noi uscivamo dallo stabilimento, passando innanzi alla sua stanza, gli davamo la buona notte, ed egli di dentro ci rispondeva cantando a squarciagola una canzone dei suoi paesi: una canzone dove c'entravano un re moro e una gitana di Siviglia; e mentre ci allontanavamo tenendogli bordone, sentivamo la sua voce a poco a poco affievolirsi, e volgendoci, sul cielo d'un azzurro scuro vedevamo rosseggiare per la luce della lampada il finestrone dello studio, dove egli passava le sue notti, lieto e spensierato, fra i suoi bozzetti di creta, e la sua miseria. Una sera come al solito gli urlammo la buona notte, ma la canzone del re moro non risuonò nella quiete della campagna. Bussammo alla porta. Una ciociara venne a dirci che lo spagnuolo aveva la febbre. Entrammo. Lo scultore si levò a sedere sul lettuccio e facendosi schermo con le mani agli occhi per non vedere la luce che lo infastidiva ci ringraziò, sorridendo e soggiunse: — Non è niente. È un po' di febbre. Grazie! — E si raggomitolò fra le coltri.

      Uscimmo rattristati e la ciociara rimase a vegliarlo.

      L'indomani sapemmo che il poveretto era stato colto da una perniciosa. Venne un medico e l'ubriacò di chinino. Volevamo condurlo via dallo studio; ma il medico ci disse alzando le spalle:

      — Oggi non è possibile. Sarebbe peggio. Vedremo domani, se il male scema. — E mentre parlava guardava curiosamente i bozzetti ch'erano disseminati nello studio. — Vedremo domani — disse ancora, e, dopo un'altra guardata ai bozzetti, se ne andò.

      L'indomani lo scultore peggiorò, e, perduta la ragione, prese a discorrere del suo paese e della sua casa paterna. Delirava, e non appena il delirio cessava, ricadeva stordito sul lettuccio e il sudore gli gocciolava dalla fronte giù per le gote infiammate.

      Agli ultimi momenti ebbe una allucinazione, che forse fu il suo estremo conforto.

      A chi lo assisteva, dava nomi spagnuoli, forse quelli dei suoi cari; e quando l'agonia cominciò a straziarlo abbracciò teneramente la ciociara, che singhiozzava, e chiamandola con un filo di voce col dolce nome di mamma, baciandola e ribaciandola, le morì fra le braccia.

       * * *

      Ero innanzi allo studio del povero scultore, quando un signore vestito di nero, che Nicoletta, inchinandosi di quando in quando rispettosamente, onorava col titolo di signor commissario, venne a suggellarne la porta.

      Nicoletta reggeva una candela, e il signore vestito di nero con qualche fettuccia bianca nella sinistra e un suggello in bocca, bruciava la ceralacca rossa sulla fiamma. Alcuni monelli, nè tristi nè lieti, interrotti i loro giuochi, stavano a guardarli. Il sole illuminava giocondamente il prato verde davanti allo stabilimento e i mandorli in fiore biancheggiavano sul cielo sereno. Un quadro!

      Sopraggiunse una modella che andava in cerca di lavoro e vedendo i due che ponevano i suggelli alla porta, mi venne vicino e mi domandò che cosa stessero facendo.

      — È morto! — le risposi.

      — Chi?

      — Lo spagnuolo.

      — Poveretto! — esclamò la modella; e rimase a capo chino, per un poco immobile; poi rialzò la testa, guardò il signor commissario che accendeva il sigaro alla candela, e soggiunse, sospirando: — Proprio adesso che m'aveva promesso un par de stivaletti de brunella!

       Indice

      Mario, quand'io lo conobbi, era un povero vecchio tutto ossa e pelle, con una barba bianca bianca, che gli cadeva sul petto, e con una lunga zazzera che scendendogli come una pioggia di fili d'argento su le spalle, gli copriva quasi la metà d'una giacca di velluto marrone, deturpata e rosicata dagli anni.

      Al Vicoletto della Scalaccia, ove andava a dormire in un cortiletto umido e nero, lo chiamavano er mago: e le comari del vicinato al vederlo gli andavano incontro ridendo e gli chiedevano tre numeri sicuri. Egli si schermiva come meglio poteva, s'afferrava con le mani scarne la barba, e scuotendo la testa si allontanava brontolando: — L'arte è ita! L'arte è ita! E qualche volta soggiungeva: — Mo Mario è vecchio! Che ve ne fate? Buttatelo a fiume!

      Povero Mario! Allora l'arte nun era ita, nè egli pensava alla vecchiaja e alle bionde acque del Tevere, quando all'Accademia di belle arti, gonfiava, fra l'ammirazione degli artisti, i muscoli dell'ampio torace piegando la persona a raffigurare il Gallo moribondo o il Discobulo, l'Orazio ar ponte o il Muzio Scevola all'ara. Allora l'arte nun era ita, quando egli andava di corsa su pe' le spallette d'Acquacetosa pe' mantenesse sciorta la muscolatura, e saliva al museo del Campidoglio p'annà' a vede' come camminaveno e come se moveveno l'antichi romani. Perchè egli allora, e lo diceva a voce alta, non era adatto a tenere azioni da imbecille: ma azioni da potè' dà' er movimento a la vita e a la storia. Allora! Ma quando io lo conobbi, il vecchio modello affogato sino agli occhi nella miseria, de li tempi antichi se ne ricordava soltanto se qualche volta passava sotto i finestroni della sala del nudo, dell'Accademia e se poteva avvicinare qualche studente per parlargli di amori russi e di Padreterni in gloria, d'eroi del mondo greco e romano e di tanti artisti ai quali lui, proprio lui, aveva dato il mezzo di divenir celebri. E si doveva rider di cuore a sentirgli raccontare come una volta a uno straniero che voleva farlo posare da Giuda avesse risposto: — Musiù, 'sta faccia nun è faccia da traditore! — Ed era proprio una cosa pietosa il sentir dire da quel povero vecchio affamato com'egli avesse più volte acconsentito a posar da modello a un giovanotto che non poteva pagarlo, solo contento d'aver aiutato uno che un giorno sarebbe diventato un pezzo grosso dell'arte.

       * * *

      Mario, quand'era ancora giovanissimo, faceva il taglialegna.

      Un giorno, stanco dalla fatica lunga, s'era buttato in terra e s'era addormentato al sole. Con la testa abbandonata all'indietro, saldamente piantata su d'un collo taurino, egli sembrava in quell'atto un gladiatore che si riposasse dalle fatiche del circo.

      Un pittore, che per caso si trovò a passare, rimase colpito dalla maschia beltà del dormiente; s'avvicinò a lui; lo risvegliò e gli chiese se voleva posargli da modello.

      Il giovinotto rimase un po' con gli occhi sbarrati a guardare curiosamente l'artista, senza capir nulla; ma alla fine sorrise e accettò; e l'indomani salì a via Sistina allo studio del pittore. Questi, ritto su di una scaletta, riproduceva col carbone sopra una tela ampissima e già piena di figure abbozzate, il contorno di una fanciulla, che stava in mezzo alla stanza, immobile come una statua. Ella era seminuda e i capelli neri ornati da alcuni ramoscelli d'edera le cadevano su le spalle bianche e sul seno: reggeva con la sinistra la pelle di una tigre, morta chi sa da quanto tempo, e con la destra levava in alto una tazza di legno dorato. Accanto a lei una vecchia ciociara faceva la calza.

      Come il pittore vide il taglialegna, che appena entrato nello studio s'era fermato col cappello in mano, scese subito dalla scaletta, e dopo di aver detto alla fanciulla: — Vestitevi! — si avvicinò al giovinotto e gli disse: — Spogliatevi!

      Mario divenne di bragia e non si mosse.

      — Coraggio! — riprese, sorridendo, l'artista, e allora il giovinotto, mentre la fanciulla e la vecchia lo guardavano e ridevano, si levò lentamente di dosso la giacca; poi si tolse il corpetto; poi con un gesto energico si liberò dalla camicia e rimase col torso ignudo dinanzi al pittore.

       * *


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