Prose (1880-1890). Cesare Pascarella
— Non ancora; ma siamo lì!
— Allora corro ad avvertire la Società degli asfittici! — esclamò il professore; e, allontanandosi in fretta con le mani nei capelli svolazzanti, aggiunse:
— Forse arriviamo in tempo!
Dopo una risata doverosa tutti si volsero verso il lettore dicendogli: — Vai avanti! — Ed egli aspettò che tutti si quietassero e, come vide che tutti lo guardavano in silenzio con le orecchie intente, riprese: — «Colà si sdrajò su uno dei primi gradini della grande scalinata della chiesa e s'addormentò. Quando riaperse gli occhi dall'alto della torre capitolina, dorata dagli ultimi raggi del sole cadevano sulla piazza i rintocchi di una campana. Il vecchio all'udire quel suono che prima di spegnersi ondeggiava gravemente nell'aria fredda si alzò e, scorgendo sulla cima della cordonata le statue colossali dei Dioscuri su le quali l'ombra già cominciava a salire, si ricordò di Marco Aurelio, e avvicinatosi a una delle balaustrate, dietro a cui fra il fogliame bruno dei ligustri cinguettavano i passeri, vi si appoggiò tentando di trascinarsi sulla piazza michelangiolesca; ma dopo pochi passi dovette fermarsi: le gambe gli tremavano. Tornò indietro ansimando e raccolta nel cavo delle mani un po' d'acqua gelida che dalla bocca di un leone di basalto cadeva in una conca di travertino la bebbe avidamente. Poi, dopo di aver guardato ancora la torre ormai fiammeggiante di sole soltanto nel vertice, e di aver abbassato anche una volta gli occhi velati dalle lagrime sulla cordonata, su quella cordonata dove egli in gioventù era passato tante volte correndo per andare a contemplare nel museo capitolino quelle statue, delle quali egli soleva con la sua bella persona imitare gli atteggiamenti, discese adagio adagio nella via angusta e solitaria di Torre degli Specchi, ove qualche lampione già acceso mandava un po' di luce giallognola su le mura squallide di un antico monastero; attraversò la piazza Montanara, e arrivò alla discesa di Monte Savello».
«Quivi alcuni robivecchi che uscivano, cantando a squarciagola, da una osteria lo presero a dileggiare: uno di loro gli mise le mani addosso e lo spinse su le pietre nere di un portone enorme, bagnate di liquido immondo, e un altro aprendo la bocca di un sacco gli andò incontro sghignazzando e dicendogli di volercelo mettere dentro. Il vecchio lo schivò; ma non s'era chinato per raccogliere un sasso, che una ciabatta lanciatagli alle spalle da uno di quei bruti gli portò via il cappello. Allora quanto più presto egli potè farlo si allontanò e, mentre gli ubriachi gonfiando le gote barbute e ponendosi le mani sudice sulle labbra congiunte e contratte continuavano a perseguitarlo con suoni osceni e scurrili, entrò nel ponte Fabricio»...
— Cioè? — chiese uno.
— Ponte Quattro Capi!... Ignorante! — gli rispose un altro.
Tutti sorrisero; e il lettore, dopo un gesto d'impazienza, riprese: — «... entrò nel ponte Fabricio, dove stremato di forze si appoggiò a un'erma quadrifronte, e abbassato il capo ignudo e canuto rimase a guardare il Tevere giallo e melmoso. Dopo qualche istante gli parve che il fiume si fermasse e il ponte incominciasse a muoversi e, sentendosi soffocato da un senso penoso di nausea, chiuse gli occhi; ma appena li riaperse gli sembrò che il moto del ponte si accelerasse e che questo, correndo sempre più veloce sulle acque immobili lo portasse verso un punto lontano lontano dell'orizzonte ove, sopra una linea di casipole brune, interrotta da qualche cupola e da qualche torre, moriva a poco a poco l'ultima luce del giorno.
Allora il povero vecchio fu vinto dalla vertigine; si aggrappò con le mani tremanti al parapetto del ponte; vi strisciò sopra e scomparve».
Gli applausi che avevano salutata la fine della dolorosa e commovente storia del vecchio modello, letta con tanto garbo dal giovine aedo, non s'erano ancora spenti, quando dal fondo del corridoio bianco, uscì fuori un bidello nero, assai grave d'anni, col berretto grave d'anni anch'esso, ma gallonato d'oro.
Al vedere il veglio onesto, degno di tanta riverenza in vista, che fermatosi sotto una delle statue di gesso aveva preso a battere le mani come se proprio volesse dire: — Qual negligenza, quale stare è questo? — gli studenti lasciarono il corridoio, rientrarono nella grande sala, ove sul palco era già risalito il modello (un giovane ignudo, alto, forte e bellissimo), ripresero i loro posti e ricominciarono a disegnare in silenzio.
IL MANICHINO
A ONORATO CARLANDI.
Mio caro Onorato,
Se un anno addietro mi avessero detto che io sarei entrato a far parte di quei tali seccatori del prossimo, conosciuti volgarmente sotto il nome di conferenzieri, avrei scommesso chi sa qual somma strepitando il contrario. Ma è purtroppo vero che a questo mondo si sa come si nasce e non come si muore! Un anno è passato, ed eccomi qua battezzato conferenziere e per di più conferenziere stampato.
Del resto, caro Onorato, se l'Italia conta ora un seccatore di più il merito mi par che sia tuo.
Ti ricordi? Eravamo in dieci o dodici nella taverna del nostro Circolo artistico e parlavamo delle conferenze che allora si tenevano nella sua sala maggiore: ed io ricordo di aver detto, che le conferenze, quando non divertono, annoiano. Poi il discorso seguitò fra il giocondo tintinnìo dei bicchieri e ci dividemmo in due campi. Tu per fare con la voce squillante l'elogio delle conferenze: io invece per dimostrare come l'uomo a questo mondo fosse già troppo infelice per infliggergli anche cotesto martirio.
Non potendoci mettere d'accordo, si passò a discutere se le conferenze si dovessero dire o leggere.
— Si devono leggere. — dicevi tu.
— No. Si debbono dire. — ripigliavo io.
— Non si debbono nè leggere nè dire. — ammonivano gli altri pestando i piedi.
Mentre il dibattito era più acuto, con uno di quegli scatti nervosi che ti sono abituali, tendendo le mani verso di me gridasti: — Tu dici che le conferenze non si debbono leggere? Ebbene, provalo, dinne una tu.
Io mi schermii osservando come le mie convinzioni politiche non mi permettessero di tenere conferenze artistiche. E tu allora ripigliasti: — Dunque sei buono solo a far ciarle! — E soggiungesti: — Guarda! Se tu fai una conferenza io scommetto duecento lire...
Quelle duecento lire ipotetiche, che riluccicarono all'improvviso fra il fumo delle pipe, fecero cessare il baccano. Io mi alzai e accettai la scommessa.
Ci stringemmo la mano, e, dinanzi a quattro amici come testimoni, furono stabiliti i patti.
La conferenza doveva durare non meno di tre quarti d'ora: nel dirla non dovevo avere nessun foglietto scritto sotto gli occhi e dovevo tenerla nella maggior sala del nostro Circolo artistico durante la stagione invernale.
Rimaneva da cercare il titolo.
— Dev'essere una conferenza artistica. — dissero tutti in coro.
— Benissimo. Il tema della conferenza l'ho già trovato.
— Quale è? — dimandarono molti.
— Il manichino! — risposi io.
Il vino sprizzò su la tavola dai vetri urtati festosamente. Passò qualche mese ed io, l'avversario accanito delle conferenze, il motteggiatore dei conferenzieri, divenni conferenziere a mia volta: e per un'ora e mezza parlai innanzi ad una folla di signore e di artisti, alla cui bontà dovetti il successo che ne riportai.
Ora, caro Onorato, la conferenza a cui tu hai dato origine con l'idea della scommessa, è data alle stampe, e voglio che il tuo nome vada unito al mio nella pubblicazione.
Convieni con me che in quest'affare della conferenza, non ti potevano capitare fastidi maggiori. Perduta la scommessa ora devi sopportare