I demagoghi. Cesare Monteverde

I demagoghi - Cesare Monteverde


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di studiare il mondo.—

      A questa frase, pronunziata ad alta voce, l'uomo del manoscritto alzò la testa e fece un involontario movimento indicante compassione, quindi eseguì una grande cancellatura sull'opera e si mise a meditare.

      —Benissimo, soggiunse l'altro damerino replicando alla dichiarazione della signora, benissimo: così è che dovrebbero fare tutte le gentildonne.

      —Sono del vostro parere, caro cavalier segretario, disse il primo; ma il male sta che non tutte le signore del nostro secolo hanno l'acutezza d'ingegno ed i gusti della marchesa.

      —Obbligata del complimento! fu sollecita a riprendere la elogiata; sempre cortese e gentilissimo!—Indi, accostandosi al naso una boccetta d'oro contenente essenza odorosa, ne aspirò buona dose.—Io peraltro non lo merito, soggiunse: faccio il mio piacere e nulla più.

      —In grazia, che avete raccolto dai vostri studi mondiali? interrogò il conte.

      —Ditecelo, proruppe il cavalier segretario.

      —Che bisognerà educare il popolo.

      —Non v'ha dubbio esser questa una delle più grandi necessità dell'epoca.

      —Ah! saltò su a dire l'uomo del manoscritto (chiudendo il quaderno ed avanzandosi a prender parte alla conversazione con quella libertà di modi che si pratica fra le persone con cui si è per viaggiare); ma il mezzo sapreste voi additarlo, o madama?

      —Fa duopo discutere molto.

      —Discuterò volentieri, replicò il cavalier segretario.

      —Ed io pure, continuò il signor conte,

      —Ed ella? dimandò la signora all'incognito

      —Volentieri cedo al vostro desiderio. Educare il popolo non è molto difficile, ma fa duopo prepararlo ai suoi grandiosi destini: fa duopo sovvenirlo, reggerlo, dargli pane e lavoro.

      —Son cose vecchie, interruppe la saputella damina.

      —Son cose giovani, severamente rispose il brusco letterato, e che non invecchieranno mai; ma non bisogna inebriarlo di folli utopie: allora solo potrà esser libero e virtuoso.—

      La damina fu assai piccata dello sguardo di quell'incognito, che pareva una specie di Diogene e le facea gli occhiacci; e mentre i due damerini si guardavano fra loro con certo modo di maraviglia,

      —Ditemi, signor filosofo, dimandò, quel libro che avete nelle mani è forse uno dei trattati della vostra rigida filosofia popolare?

      —Gentile signora, replicò l'interrogato con un sorriso di compiacenza, il libro che tengo nelle mani è il manoscritto di un mio romanzo.

      —Un romanzo! sclamò la marchesa dando un passo indietro.

      —Un romanzo! disse il segretario facendo il viso serio.

      —Un romanzo! gridò il conte facendo un par di occhioni dalla sorpresa.

      —Sì, miei signori, qual maraviglia? proseguì placidamente l'autore. Forse perchè mi avete sentito batter sodo sulla filosofia, vi fa specie di sapermi autore d'un romanzo? Non si può forse, scrivendone, dilettare ammaestrando? E non crediate (e qui lo scrittore prese un po' di fuoco e se gli accesero le guance) e non crediate che tutto quello che chiamasi romanzo sia un impasto di fole, di storie bizzarre. Ditemi un poco: quante volte la favola non ha ella insegnato delle apprezzabili verità?

      —Voi ci avete posto nella massima curiosità, prese a dir la marchesa; favoriteci il titolo.

      —I misteri di Livorno o i Demagoghi.

      —Il titolo non mi dispiace, continuò la dama. Ma, quanto all'opera, la credete voi buona?

      —Non sta a me a dirlo.

      —La credete bella?

      —Nessuno loda le proprie opere.

      —La credete poi utile al popolo?—

      Il treno che arrivò in quel momento non gli permise di replicare, ed entrò in vagone insieme agli altri.

       Indice

      Il Caprone.

      —Non è possibile.

      —Ma quando te lo dico io, ci puoi credere, caro Marco. Orsù, prendi il tuo fucile in ispalla e buona guardia.—

      Questo breve dialogo aveva luogo la sera del 15 febbraio dell'anno 1821, alle ore undici, fra due soldati di linea che si cambiavano di fazione sulla piattaforma della fortezza vecchia in Livorno.

      Questa fortezza dà, colle sue mura costrutte nel secolo decimosesto, sul mare dalla parte di ponente. Quelle mura, corrose dal tempo e dai venti marini, presentavano all'epoca di questo racconto alcune fessure del diametro di un sesto di braccio; ed essendo formate a scarpa, non sarebbe stato difficile lo scalarle, quando non custodite da vigili scolte. A destra del posto ove passeggiava la sentinella si vedeva, alta dal livello del mare poco più di due braccia, un'opera di fortificazione che, mezzo diruta, tuffava i suoi fondamenti nell'acqua marina dalla parte di ponente e nel fosso della così detta Venezia nuova, canale che serve di veicolo alla introduzione delle merci in quel quartiere della città. Il bisogno di provvedere alle esigenze sanitarie e d'impedire più specialmente il contrabbando del tabacco faceva sì che nella consegna del posto armato di sopra menzionato vi fosse l'obbligo di sorvegliare sul bastione sottoposto e particolarmente sull'opera semidiruta, la quale, separando con semplice e basso muro il mare dal fosso dello scalo di Santa Trinità, rendeva assai facile l'introdursi di contrabbando nella città stessa.

      Livorno all'epoca da noi accennata non aveva risentito nulla dì quello sviluppo che sì maravigliosamente nel suo materiale ha conseguito di poi. Essa serbava ancora le sue medicee mura, di là delle quali erano vasti e popolosi sobborghi. Le sue strade anguste e tortuose (tranne due o tre principali), il lurido casone, l'annesso quartiere degli Ebrei col suo nome di ghetto, sporco nelle vie, nei muri, nelle case, nell'interno di esse, buio anzichè no, abitato da ciurmaglia povera e schifosa. Aveva il quartiere detto la Venezia nuova, ove vegeta piuttostochè vivere una popolazione diremmo quasi staccata dal rimanente pei suoi gusti, per le sue costumanze, per i suoi vizi, per l'accento non toscano; popolazione la quale, come vediamo, pel suo continuo contatto con la gente di mare si è improntata di un carattere tutto speciale e bizzarro; popolazione infine ignorantissima, di cuor fiero, di volontà decisa, di un coraggio e di un'audacia senza pari, facile per altro alla credulità ed a cedere a qualsivoglia cosa che abbia dello straordinario e del portentoso. Livorno adunque nel 1821 non poteva differire gran che da quella di un secolo addietro. Chi cercasse peraltro di ritrarne un'idea dalla ispezione che fosse per farne attualmente, invano spenderebbe il suo tempo. Cotesta marittima città ha fatto come la crisalide: essa è uscita dal suo lurido involucro per mostrarsi di straordinaria beltà, la quale però non permette di riconoscerla dall'epoca della sua metamorfosi.

      Ma, del paro che colle fabbriche, ha ella cangiato nel suo morale, nei suoi costumi? Io sento che sì; fuorchè rispetto agli abitatori della Venezia. Il cangiamento sarà poi stato giovevole al suo commercio, alla sua industria, al suo bene essere, in una parola? Questo potrà dirlo altri; io per me scrivo un romanzo e mi astengo dal pronunziare. L'esito lo mostrerà.

      Il militare che abbiamo sentito nominare per Marco era un giovane di bassa statura, piuttosto pingue, la cui fisionomia, ilare per abitudine, lo dichiarava per uno dei buoni villici delle nostre colline. Marco, in forza della sorte cruda che gli aveva fatto estrarre il numero sei dall'urna dei coscritti, aveva dovuto lasciare da un anno il poderetto della Sambuca, le care veglie dell'inverno, nelle quali, seduto su d'una ruvida panca accanto al domestico focolare, si occupava colle mani a lavorare panieri di giunchi e colle orecchie a sentire le gravi e spaventose storie cavate dalla non mai abbastanza lodata opera del 1300—Lo specchio della vera penitenza—, ove i morti fanno cose da


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