L'Argentina vista come è. Luigi Barzini
Siamo le mogli dell’Imperator!
« Ma qualche volta facciamo del... flirt!... »
Lettori, fuggiamo!
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Due quadri a ponente della City si trova una via che per il suo aspetto ricorda il Corso di Roma: è la Calle Florida, il centro dell’eleganza bonearense. I lettori comprenderanno il significato di quei « due quadri a ponente ». Essi sanno bene come Buenos Aires sia—a somiglianza di tutte le città moderne—costruita a quadrigliato; le strade, tutte eguali in modo desolante, s’intersecano ad angolo retto, alla stessa distanza, formando dei quadri: una cosa più noiosa della nebbia. Il quadro è la base delle distanze, l’unità di misura: gl’indirizzi vengono indicati così: tanti quadri a destra e tanti a sinistra e siete arrivato. Par di camminare sopra una scacchiera; infatti per andare alla Posta io debbo fare il « salto del cavallo »; per andare alla Banca marcio come la « torre », sempre dritto; e vado al club seguendo le regole dell’« alfiere ». Roba da diventar matto, anzi... scacco matto!
Calle Florida dunque è la via dello chic; lì sono i negozî più ricchi, i bars e i caffè più in voga, lì gli eleganti portano a spasso le loro cravatte e le eleganti le loro ultime toilettes parigine. Calle Florida è tributaria in tutto a Parigi; sì, dall’epoca della penultima Esposizione mondiale. Da allora Parigi—unica fra le città europee—gode della stima presso gli argentini. Il « hijo del pais »—il figlio del paese—quando vuol visitare il nostro vecchio ed arretrato continente non ha altra mèta che Montmartre; esplora il « Moulin Rouge », lascia i suoi pesos nei dintorni della place Blanche, e ritorna in patria completamente soddisfatto. A Parigi vivono sempre degli argentini, il cui numero varia anche a seconda della situazione politica; in certe circostanze, per esempio, quando c’è la minaccia d’una guerra col Cile, il viaggiare esercita qui un’attrattiva irresistibile.
Parigi è l’unico termine di paragone con Buenos Aires; giorni sono, al « Grand Prix » di trentamila pesos all’Ippodromo, un diplomatico—che potrebbe anche essere italiano—diceva ad una signora argentina moglie del direttore d’uno dei migliori giornali bonearensi, accennando all’elegante concorso: È un bellissimo spettacolo che forse nemmeno da noi è dato di vedere spesso! La dama si volse sdegnosamente rispondendo: « Sappiate, signore, che soltanto a Buenos Aires e a Parigi si può ammirare una simile cosa! » Poche signore bonearensi avrebbero dato altra risposta. Parigi è nella loro mente il compendio di tutto il bello e di tutto il buono che possegga l’Europa.
Esse non hanno altra ambizione che di rassomigliare a delle parigine. Tutte, senza eccezione, cominciano col trasformare la loro bruna carnagione con l’impiego, senza economia, di tutte le colorazioni che la chimica ha escogitato a questo scopo, dal bianco per il collo al rosato per le gote, dal carminio per le labbra al livido per gli occhi; s’inondano di profumi; s’abbigliano con quanto la moda boulevardière lancia di più vivace e di più ardito. E riescono nel loro intento. Lo straniero che non è ancora al corrente della strana manìa universale, rimane choqué del gran numero di... parigine che vede.
Alla sera tutto questo mondo si ritrova nel parco di Palermo sulle verdi rive del Rio della Plata; lungo le avenide, bordate di palme rigogliose, gli equipaggi sontuosi sfilano lasciando fra i pedoni una scìa d’ammirazione e di maldicenza. Al di là del parco, delle villette e dei giardini si seguono; nel silenzio della campagna, la vita tumultuosa si spegne. La pampa incomincia; essa porta l’infinita e squallida uniformità della pianura fino alla città: Buenos Aires è come un’isola circondata da questo oceano erboso. Nulla viene a rompere la linea sterminata dell’orizzonte, fuori degli innumerevoli elevatori a vento dei pozzi artesiani, grandi ruote a palette sopra armature d’acciaio, che fanno pensare a scheletri di fuochi d’artificio rimasti da un immenso e misterioso festival.
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Dal lato opposto della città gli eleganti non vanno mai. Vi è la Boca del Riachuelo, uno strano rione, un paese quasi, dalle piccole case di legno, di ferro zincato, di casse da petrolio; qualche volta anche di mattoni. Dalle vie sterrate, sulle quali il vento solleva il polverone a vortici, si scorgono piccoli recinti pieni d’immondizie, depositi di vecchi cerchi di botte, di mobili a pezzi, di cenci, di roba d’ogni genere raccolta certamente per la strada e radunata non si sa perchè, forse per quella strana manìa collezionista che accompagna talvolta la miseria. In alcuni cortiletti al piede di alberi rachitici bruciati dal sole, vegetano pomodori ed erbaccie fra i quali razzolano i polli. In certi punti il terreno è paludoso; le vie sboccano in veri pantani. Qui le case sono costruite sopra palizzate, come quelle dei villaggi lacustri; l’acqua marcisce intorno alle abitazioni, tutta coperta da muffe verdi. In alcune strade meno frequentate pascolano liberamente dei buoi, che gettano al vento il loro muggito lamentoso. Per ogni dove piccoli negozî oscuri di almacen dove si vende di tutto; povere mostre polverose coperte di mosche; osterie dalle quali esce il tanfo caldo del vino come dalla bocca d’un ubbriaco; loschi caffè dove non si prende il caffè...
La Boca migliora in prossimità del fiume; vi si vedono dei grandi depositi di legname e di ferro, delle agenzie, degli ufficî. I caseggiati si serrano uno contro l’altro in disordine, come se si affollassero verso lo scalo per osservare curiosamente le golette, i brigantini, i trealberi, i velieri d’ogni forma che ancora preferiscono dar fondo al Riachuelo per antica consuetudine.
La Boca del Riachuelo è genovese. Qui l’aspro dialetto ligure è la lingua comune. I genovesi sono pressochè i soli italiani che vivano riuniti in Buenos Aires, che abbiano formato una comunità separata, e che s’impongano talvolta anche alle autorità ora per avere una « Calle Ministro Brin », ora per reclamare il diritto ad un corpo di pompieri speciale, italiano. Sono marinai e figli di marinai, gente che vive sempre del mare; scaricatori, piloti, battellieri, qualche armatore di velieri: alcuni passati poi al commercio e divenuti grossisti, almacenieri; e osti e mestieranti. Solo gli arricchiti lasciano la Boca.
Tutti gli altri italiani—ve ne sono più di duecentomila in Buenos Aires—vivono dispersi per l’immensa città. Oh! ma non è difficile trovarli!
I venditori ambulanti che trascinano la loro triste vita sui marciapiedi sono tutti italiani. Questo si dice ufficialmente avere in mano il piccolo commercio. Sono italiani i terrazzieri che scavano le fogne, i lastricatori delle vie, i muratori arrampicati sui ponti, tutti coloro che compiono i lavori più rudi, gli operai in genere. Basta correre là donde viene il batter d’un martello, dove stridono delle macchine, dove romba un lavoro qualunque esso sia, dove si fatica, per trovare gl’italiani. Non v’è pietra, si può dire, che non sia stata messa a posto da mani italiane; dalle mani italiane è uscita la Buenos Aires d’oggi con i suoi casamenti tedeschi e francesi e le sue ville inglesi.
No, non è difficile trovarli i nostri connazionali! Fra i palazzi sontuosi, anche nelle più belle calles e avenidas—con quella promiscuità che caratterizza questo caos che è Buenos Aires—vi sono delle porticine ai cui stipiti la miseria ha lasciato la sua sudicia traccia. Sono gl’ingressi ai conventillos, le case immonde dove vivono ammassati i poveri. Anche lì si parla italiano!
Fortunatamente vi sono palazzi e ville abitati da molti connazionali nostri, e ciò conforta. Ma lì, lettori miei, normalmente non si parla più italiano; la nostra lingua vi è bandita.
Lì generalmente « se habla la lengua del pais!... »
GLI ALLUCINATI.
[Dal Corriere della Sera del 13 gennaio 1902.]
Buenos Aires, dicembre 1901.
Vengono e vengono gli allucinati, sempre, a migliaia e migliaia, tutti i giorni. Essi seguono follemente il loro miraggio, abbacinati; non sanno nulla, fuori che questa è la terra dove « si fa fortuna »; ignoranti e incoscienti, senza volontà e senza idee, spinti da una forza misteriosa e mostruosa, quasi