Il Castello Della Bestia. Aurora Russell
di amico di famiglia, ma è stata molto vaga nei dettagli.» Tamburellò le dita sul bracciolo mentre rifletteva. «Ho dovuto firmare un accordo di riservatezza prima ancora che mi mandassero la descrizione del lavoro.»
«Hmm-mm.» Quell’unico breve verso della sua amica sembrava riflettere scetticismo e sospetto. «Quanti anni hanno i bambini?»
«Solo uno. Un maschietto. Penso che abbia quattro anni... Non va ancora a scuola, ma frequenta l’asilo.»
Veronica osservò il paesaggio sempre più rurale e boscoso che sfrecciava fuori dal finestrino. La giornata era grigia e uggiosa, ma la bellezza delle terre selvagge del Maine era ancora innegabile. La voce automatizzata, ben modulata e incredibilmente femminile dell’annunciatrice, giunse dagli altoparlanti.
“Siamo in arrivo a Grant’s Cliff. Grant’s Cliff è una fermata a richiesta. Per favore avvisate il controllore, se dovete scendere.”
L’eccitazione e il nervosismo si combinarono in un’unica potente scintilla che scatenò un turbinio di farfalle nello stomaco di Veronica, proprio mentre si alzava e iniziava a raccogliere le sue cose.
«Scusa, K... Devo andare. Hanno appena annunciato la mia fermata. Ti chiamo più tardi, okay?»
«Sì! Chiama, invia un messaggio, qualsiasi cosa... Aspetterò con impazienza di sapere che non ti hanno incatenata nel seminterrato di questo tizio, o nelle segrete. In ogni caso, stai attenta! E buona fortuna!»
Sostenendo il telefono tra la spalla e la guancia, Veronica scoppiò in una risata che risultò smorzata, mentre prendeva la borsa dalla cappelliera. «Grazie!»
«Quando vuoi! Ciao!»
«Ciao.» rispose Veronica, lasciando cadere la borsa sul sedile e sfiorando lo schermo del suo cellulare per terminare la chiamata. E, a quanto pareva, lo aveva fatto al momento giusto, visto che catturò l’occhiata del controllore e il treno cominciò a rallentare. Lei gli aveva comunicato in precedenza dove sarebbe scesa, ed era contenta di averlo fatto, perché sembrava che nessun altro avesse intenzione di muoversi. Evidentemente Grant’s Cliff non era una destinazione popolare.
«Da questa parte, signorina.» Il volto segnato dalle intemperie del capotreno si increspò in un sorriso gentile, quando le fece un cenno con una mano indurita dal lavoro.
«Grazie.» Lei gli restituì il sorriso e fece scivolare la tracolla della valigia di traverso sulla spalla, spostandola poi sulla schiena in modo da potersi affrettare lungo il corridoio centrale più facilmente. «Sono l’unica a scendere?»
«Esatto» rispose lui con il suo marcato accento del Maine. Lei pensò che il capotreno non avrebbe aggiunto altro, ma mentre usciva dalla porta aperta sul piccolo marciapiedi, lo sentì aggiungere: «Non c’è molto qui fuori al giorno d’oggi, a parte il castello e la bestia.»
Sorpresa, Veronica si voltò, ma le porte si erano già chiuse con un fruscio e il treno aveva iniziato a ripartire. Va bene, forza.
Si voltò e osservò la stazione deserta. Si trattava più che altro di una piccola costruzione, posta accanto a una piattaforma di cemento con dei gradini che portavano a essa. L’insegna di metallo con il nome della stazione non era più grande di un cartello stradale e sembrava consumata dalle intemperie. La giornata uggiosa aveva lasciato il posto alla nebbia, e ora che il treno era ripartito, l’unico suono era il sussurro ovattato del vento tra migliaia di alberi. Dove diavolo è l’autista? si chiese. Anche mentre si guardava intorno, metà della sua mente era ancora concentrata sulle strane parole del capotreno. Cosa intendeva con la bestia? Perché nessun altro gliene aveva parlato? Si trattava forse di un centro nevralgico per i cacciatori di Sasquatch? O il territorio di un feroce grizzly? Un attimo! C’erano dei grizzly nel Maine, per caso? Era convinta che ci fossero solo orsi bruni. Tuttavia, anche un orso bruno avrebbe potuto sicuramente passare per una bestia selvaggia.
Quando la mano gentile di qualcuno le toccò la spalla, strappandola dai suoi pensieri, urlò e balzò a un metro da terra.
«Mademoiselle Carson? Veronica Carson?» L’accento dell’uomo di mezza età era inconfondibilmente francese e pronunciò il suo nome Vehr-oh-nee-ka. Lei si portò rapidamente la mano sul collo, dove il suo battito era ancora accelerato.
«Sì» annuì, leggermente senza fiato. «Mi dispiace tanto. Non l’ho sentita arrivare.»
L’uomo, che indossava un abito scuro e persino un berretto da autista, sorrise con comprensione. «La nebbia. Quando è così fitta, beh... è tutto più ovattato.»
«Certo, ha senso.» Lei si sentì sollevata da una spiegazione così semplice.
Lui le porse la mano. «Claude Hormet, al servizio di Monsieur Reynard da molti anni.»
Veronica tese la sua, e ricevette una solida stretta di mano. «Piacere di conoscerla, Monsieur Hormet.»
Il sorriso dell’uomo si allargò alla pronuncia del suo nome, e le sembrò di vedere una certa sorpresa balenare nei suoi occhi «È un vero piacere conoscerla, Mademoiselle. Ci era stato detto che parlava bene il francese e posso confermarlo, se non le dispiace che lo dica.»
«Grazie. È molto gentile da parte sua. Sarei felice di cambiare lingua, se lo desidera, così potrebbe davvero giudicare.»
Monsieur Hormet sorrise di nuovo. «Mi piacerebbe, magari più tardi. Per ora la accompagno allo château.»
Le prese la borsa e la condusse a una berlina Lincoln nera e lucida che sembrava in perfette condizioni nonostante dovesse avere almeno trent’anni. Le aprì la portiera posteriore, e quando lei si accomodò sul sedile, le fece un piccolo inchino prima di richiuderla. Non sentì nemmeno il baule chiudersi dopo che lui ci ebbe messo dentro la valigia, e quando cominciarono a muoversi, il viaggio fu così tranquillo che le sembrò di fluttuare.
Monsieur Hormet non parlò più, e intuendo che forse sarebbe stato considerato troppo informale per lei iniziare una conversazione, anche Veronica rimase in silenzio. Invece, tirò fuori la cartellina con una copia del suo curriculum e una lista di referenze. Riesaminò di nuovo i suoi appunti, ma erano piuttosto scarsi. Dalle poche informazioni che avevano accompagnato la descrizione dell’impiego, non sapeva molto di quell’offerta e nemmeno del suo futuro datore di lavoro, a parte il suo cognome, così provò di nuovo nella sua testa quello che avrebbe potuto dire in merito alle sue esperienze professionali.
Era così immersa nei suoi pensieri, a suo agio sulla sontuosa pelle dei sedili, che non alzò lo sguardo finché la macchina non iniziò a rallentare. E allora…Wow. La dimora che si profilò davanti a lei era davvero un castello, fatto di pietra con torri e torrioni. Se ci fosse stato un fossato e non si fosse trovata nel Maine, non si sarebbe sorpresa se qualcuno le avesse detto che era di epoca medievale.
Doveva essere trasalita per la sorpresa, perché Monsieur Hormet catturò il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
«Ah, le château è bello, vero?»
Osservando le linee della massiccia struttura, Veronica notò che erano anche sorprendentemente delicate. Anche se grande, era anche un capolavoro architettonico, equilibrato ed elegante. Cercando ancora di abbracciare con lo sguardo ogni parte dello château, rispose con entusiasmo: «Oh sì, assolutamente stupendo!»
Si fermarono proprio davanti ai gradini, e Monsieur Hormet si avvicinò per aiutarla a scendere dalla macchina. L’aria che le accarezzò il viso era più fresca di quella umida e pesante della stazione, e trasportava l’inconfondibile sapore salmastro dell’oceano. Curvò le labbra in un piccolo sorriso quando percepì il lontano infrangersi delle onde sulle rocce. Katrin sarebbe stata felicissima di sapere che la sua ipotesi era stata, almeno in parte, corretta.
«Se vuole seguirmi, Mademoiselle, la accompagno nel salone.» Monsieur Hormet diede un’occhiata alle finestre anteriori e indicò un piccolo movimento all’interno. «Eveline farà sapere a Monsieur Reynard del suo arrivo.»
Piegando il collo nel modo più discreto possibile per guardarsi intorno, Veronica lo seguì