Odi barbare. Giosue Carducci

Odi barbare - Giosue  Carducci


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le tempeste, bandir ne i secoli:

      «O popoli, Italia qui giunse

      vendicando il suo nome e il diritto.»

      Ma Lidia intanto de i fiori ch’èduca

      mesti l’ottobre da le macerie

      romane t’elegge un pio serto,

      e, ponendol soave al tuo piede,

      – Che dunque – dice – pensasti, o vergine

      cara, là sotto ne la terra umida

      tanti anni? sentisti i cavalli

      d’Alemagna su ‘l greco tuo capo? —

      – Sentii – risponde la diva, e folgora —

      però ch’io sono la gloria ellenica,

      io sono la forza del Lazio

      traversante nel bronzo pe’ tempi.

      Passâr l’etadi simili a i dodici

      avvoltoi tristi che vide Romolo

      e sursi «O Italia» annunziando

      «i sepolti son teco e i tuoi numi!»

      Lieta del fato Brescia raccolsemi,

      Brescia la forte, Brescia la ferrea,

      Brescia leonessa d’Italia

      beverata nel sangue nemico. —

      ALLE FONTI DEL CLITUMNO

      Ancor dal monte, che di foschi ondeggia

      frassini al vento mormoranti e lunge

      per l’aure odora fresco di silvestri

      salvie e di timi,

      scendon nel vespero umido, o Clitumno,

      a te le greggi: a te l’umbro fanciullo

      la riluttante pecora ne l’onda

      immerge, mentre

      vèr lui dal seno de la madre adusta,

      che scalza siede al casolare e canta,

      una poppante volgesi e dal viso

      tondo sorride:

      pensoso il padre, di caprine pelli

      l’anche ravvolto come i fauni antichi,

      regge il dipinto plaustro e la forza

      de’ bei giovenchi,

      de’ bei giovenchi dal quadrato petto,

      erti su ‘l capo le lunate corna,

      dolci ne gli occhi, nivëi, che il mite

      Virgilio amava.

      Oscure intanto fumano le nubi

      su l’Apennino: grande, austera, verde

      da le montagne digradanti in cerchio

      l’Umbrïa guarda.

      Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte

      nume Clitumno! Sento in cuor l’antica

      patria e aleggiarmi su l’accesa fronte

      gl’itali iddii.

      Chi l’ombre indusse del piangente salcio

      su’ rivi sacri? ti rapisca il vento

      de l’Apennino, o molle pianta, amore

      d’umili tempi!

      Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema

      co ‘l palpitante maggio ilice nera,

      a cui d’allegra giovinezza il tronco

      l’edera veste:

      qui folti a torno l’emergente nume

      stieno, giganti vigili, i cipressi;

      e tu fra l’ombre, tu fatali canta

      carmi, o Clitumno.

      O testimone di tre imperi, dinne

      come il grave umbro ne’ duelli atroce

      cesse a l’astato velite e la forte

      Etruria crebbe:

      di’ come sovra le congiunte ville

      dal superbo Címino a gran passi

      calò Gradivo poi, piantando i segni

      fieri di Roma.

      Ma tu placavi, indigete comune

      italo nume, i vincitori a i vinti,

      e, quando tonò il punico furore

      dal Trasimeno,

      per gli antri tuoi salí grido, e la torta

      lo ripercosse buccina da i monti:

      – O tu che pasci i buoi presso Mevania

      caliginosa,

      e tu che i proni colli ari alla sponda

      del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti

      sopra Spoleto verdi o ne la marzia

      Todi fai nozze,

      lascia il bue grasso tra le canne, lascia

      il torel fulvo a mezzo solco, lascia

      ne l’inclinata quercia il cuneo, lascia

      la sposa a l’ara;

      e corri, corri, corri! con la scure

      corri e co’ dardi, con la clava e l’asta!

      corri! minaccia gl’itali penati

      Annibal diro. —

      Deh come rise d’alma luce il sole

      per questa chiostra di bei monti, quando

      urlanti vide e ruinanti in fuga

      l’alta Spoleto

      i Mauri immani e i númidi cavalli

      con mischia oscena, e, sovra loro, nembi

      di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti

      de la vittoria!

      Tutto ora tace. Nel sereno gorgo

      la tenue miro salïente vena:

      trema, e d’un lieve pullular lo specchio

      segna de l’acque.

      Ride sepolta a l’imo una foresta

      breve, e rameggia immobile: il diaspro

      par che si mischi in flessuosi amori

      con l’ametista.

      E di zaffiro i fior paiono, ed hanno

      de l’adamante rigido i riflessi,

      e splendon freddi e chiamano a i silenzi

      del verde fondo.

      A piè de i monti e de le querce a l’ombra

      co’ fiumi, o Italia, è de’ tuoi carmi il fonte.

      Visser le ninfe, vissero: e un divino

      talamo è questo.

      Emergean lunghe ne’ fluenti veli

      naiadi azzurre, e per la cheta sera

      chiamavan alto le sorelle brune

      da le montagne,

      e danze sotto l’imminente luna

      guidavan, liete ricantando in coro

      di Giano eterno e quanto amor lo vinse

      di Camesena.

      Egli


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