Odi barbare. Giosue Carducci

Odi barbare - Giosue  Carducci


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i nembi il grande amplesso, e nacque

      l’itala gente.

      Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,

      tutto: de’ vaghi tuoi delúbri un solo

      t’avanza, e dentro pretestato nume

      tu non vi siedi.

      Non piú perfusi del tuo fiume sacro

      menano i tori, vittime orgogliose,

      trofei romani a i templi aviti: Roma

      piú non trionfa.

      Piú non trionfa, poi che un galileo

      di rosse chiome il Campidoglio ascese,

      gittolle in braccio una sua croce, e disse

      – Portala, e servi. —

      Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi

      occulte e dentro i cortici materni,

      od ululando dileguaron come

      nuvole a i monti,

      quando una strana compagnia, tra i bianchi

      templi spogliati e i colonnati infranti,

      procedé lenta, in neri sacchi avvolta,

      litanïando,

      e sovra i campi del lavoro umano

      sonanti e i clivi memori d’impero

      fece deserto, et il deserto disse

      regno di Dio.

      Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi

      padri aspettanti, a le fiorenti mogli;

      ovunque il divo sol benedicea,

      maledicenti.

      Maledicenti a l’opre de la vita

      e de l’amore, ei deliraro atroci

      congiungimenti di dolor con Dio

      su rupi e in grotte:

      discesero ebri di dissolvimento

      a le cittadi, e in ridde paurose

      al crocefisso supplicaro, empi,

      d’essere abietti.

      Salve, o serena de l’Ilisso in riva,

      o intera e dritta a i lidi almi del Tebro

      anima umana! i foschi dí passaro,

      risorgi e regna.

      E tu, pia madre di giovenchi invitti

      a franger glebe e rintegrar maggesi,

      e d’annitrenti in guerra aspri polledri

      Italia madre,

      madre di biade e viti e leggi eterne

      ed inclite arti a raddolcir la vita,

      salve! a te i canti de l’antica lode

      io rinnovello.

      Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque

      de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando

      ed anelando nuove industrie in corsa

      fischia il vapore.

      ROMA

      Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:

      accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.

      Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:

      chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?

      Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella

      mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?

      e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,

      ragno attirante in vano, dentro le reti sue?

      Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:

      raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.

      Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,

      al vecchio Capitolio santo fra le ruine;

      e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia

      a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.

      Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!

      e tu Soratte grigio, testimone in eterno!

      Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;

      Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;

      mentr’io da ‘l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,

      nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo.

      O nave che attingi con la poppa l’alto infinito,

      varca a’ misterïosi liti l’anima mia.

      Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti

      tranquillamente lunghi su la Flaminia via,

      l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori

      la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;

      passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni

      de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.

      ALESSANDRIA

A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ «L’EGITTO»

      Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo

      roggio di Ramse il mistico serpente

      sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra

      volò stridendo,

      e da l’immenso serapèo di Memfi,

      cui stanno a guardia sotto il sol candente

      seicento sfingi nel granito argute,

      Api muggío,

      quando da i verdi immobili papiri

      di Mareoti al livido deserto

      sonò, tacendo l’aure intorno, questo

      greco peana.

      – Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,

      noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste.

      Tebe, dischiudi le tue cento porte

      ad Alessandro.

      Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio

      ch’ei riconosca; questo caro alunno

      de la Tessaglia, questa bella e fiera

      stirpe d’Achille.

      Come odoroso läureto ondeggia

      a lui la chioma: la sua rosea guancia

      par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole

      ch’ a Olimpia ride:

      ha de l’Egeo la radïante in viso

      pace diffusa; se non quando, bianche

      nuvole, i sogni passanvi di gloria

      e poesia.

      Ei de la Grecia a la vendetta balza

      leon da l’aspra tessala falange,

      sgomina carri ed elefanti, abbatte

      satrapi e regi.

      Salve,


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