Eva. Giovanni Verga
con voce soffocata. «E allora ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero, se il più forte o il più puro…È stato un gran dolore!…Ma il dolore è una debolezza, non è una verità…e dei due affetti sai quale ha vinto…nel mio cuore entusiasta e vergine?… ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale…Ora dimmi tu le tue frasi sonore; io ti getterò fra i piedi i fatti eloquenti.»
Io non avevo mai amato, o almeno cotesto sentimento che era sparso in tutto il mio essere non si era incarnato in una figura di donna. Ero superbo della mia arte, superbo di me che la sentivo degnamente, e ciò mi rendeva quasi geloso di me medesimo. I miei sogni erotici non erano mai scesi più giù di una duchessa, cui prestavo gratuitamente tutti i miei entusiasmi, e piedi che non si erano mai posati sul lastrico delle vie, e mani che nessuno aveva mai visto senza guanti, all’infuori di me. E aspettando la duchessa che non veniva, io facevo all’amore coi miei quadri, sognavo i capelli biondi della cameriera che spolverava le tende della finestra di faccia alla mia – i soli capelli – o le linee graziose degli omeri della modista che vedevo tutti i giorni dietro la vetrina in via Rondinelli. Nella comprensione dell’arte c’è una squisita sensualità; la bellezza plastica che compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascinamenti, ancora verginali ma potentissimi.
La mia vita scorreva serenamente in un mondo che m’ero creato colla mia fantasia. Non avevo mai rivolto un solo sguardo di desiderio su quei piaceri di una grande città che mi passavano sotto gli occhi, sebbene ad una certa distanza, e come in una nube; oppure se ne avevo provata la curiosità, con un amaro sentimento di privazione, m’ero rifugiato nella mia arte come nelle braccia di un’amante. Il mio più grande divertimento era quello di andare a teatro la domenica. Avrei preferito, è vero, quegli spettacoli che parlano più vivamente all’immaginazione, come l’opera in musica ed il ballo; ma erano spettacoli che costavano cari, e in ciascun mese ci son quattro o cinque domeniche – troppo lusso per un bilancio di centocinquanta lire.
Ora se ti dirò che senza fare un buco nel mio bilancio io non avrei fatto uno strappo nel mio cuore, che se una domenica non fossi andato alla Posta per riscuotere un vaglia non avrei visto forse il cartellone della Pergola; e se non avessi finito il giorno innanzi un lavoro di cui ero soddisfattissimo, e il sole di quella domenica non mi fosse perciò sembrato in festa come il mio cuore, io avrei visto il cartellone senza pensare a fare un buco nel mio bilancio, tu mi darai del fatalista… Farai come tutti gli altri, ti sbarazzerai con una parola di un esame increscioso.
Andai dunque alla Pergola di buon’ora per trovare un posto in platea; e lì, nella semi-oscurità, col mio paletò piegato sulla spalliera, l’ombrello fra le gambe, il cappello sull’ombrello, l’occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto d’ingresso esaminando tutto, le dorature dei palchi, il leggio del suggeritore, i lumi della ribalta, e soprattutto l’ora che segnava l’orologio.
I palchetti si andavano popolando di belle signore, – almeno avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle. Degli uomini poi ce n’erano così ben vestiti e così ben rasi, e colle testine così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d’occhi spalancati, come io guardavo loro, e istintivamente mi nascondevo le mani nude sotto il cappotto.
Squillò un campanello; un’onda di luce invase quella splendida sala, e incominciò la rappresentazione. Io ascoltavo, guardavo, tutto commosso e rimpicciolito nel mio cantuccio; il mio entusiasmo non si manifestava altrimenti che come una gran soddisfazione di aver ben impiegato le mie tre lire. Avevo comprato per tre sole lire un tesoro di emozioni. Costruivo un paradiso di matte aspirazioni, di sogni e ne cercavo il riflesso negli occhi scintillanti di quelle belle dame. – E quando le vedevo parlare e ridere sbadatamente, agitando il ventaglio o aggiustando il fisciù, provavo una molesta sensazione, e mi scuotevo bruscamente, come se m’avessero svegliato di soprassalto da un sogno delizioso.
Vedi, mio caro, quante belle cose ci sono in tre lire per uno spettatore novizio?
Alcuni istanti prima del ballo corse per la folla un mormorio di aspettazione. Io sentivo come allargarmisi il cuore, e aggiustavo macchinalmente il mio cappello sull’ombrello. Improvvisamente apparve una scena incantata, riboccante di suoni, di luce, di veli e di larve seducenti che turbinavano nelle ridde più voluttuose – come una fantasmagoria di sorrisi affascinanti, di forme leggiadre, di occhi lucenti e di capelli sciolti. Poi, quando quella musica fu più delirante, quando tutti gli occhi erano più intenti, e tutti gli occhialetti si affissavano bramosi sulla scena, corse un nuovo susurrio: «Eva! Eva!» e in mezzo a un nembo di fiori, di luce elettrica, e di applausi, apparve una donna splendente di bellezza e di nudità, corruscante febbrili desideri dal sorriso impudico, dagli occhi arditi, dai veli che gettavano ombre irritanti sulle forme seminude, dai procaci pudori, dagli omeri sparsi di biondi capelli, dai brillanti falsi, dalle pagliuzze dorate, dai fiori artificiali. Diffondeva un profumo di acri voluttà e di bramosie penose. Guardavo stupefatto, colla testa in fiamme e vertiginosa. Provavo mostruosi desideri, e invidie, e scoramenti, e alterezze per la mia arte che sentivo abbassarsi sino ai miei desideri, e pel mio ingegno che mi pareva si elevasse sino a guardarla a faccia a faccia, l’arte; e in fondo a tutto questo, un amaro rammarico di trovarmi in quel meschino posto di platea e senza guanti. Poi tutta quella visione scomparve in un lampo di luce e in un’onda di musica. Tutto tornò buio. Rimasi ancora sognando, con quei suoni negli orecchi e quelle larve davanti agli occhi. Mi alzai quando gli altri si alzavano; uscii barcollando, urtando nel vestibolo tante belle signore, e calpestando tante code, rischiando venti volte di gettarmi sotto i piedi dei cavalli in istrada. Quella notte non potei dormire; mi sentivo come se avessi tutti i nervi agitati; avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo delle mie impressioni, e giacché mi parve che il pennello non avrebbe potuto esprimerle tutte, mi misi a scrivere… un vero delirio, un sogno da febbricitante, però senza pretese, e senza altro scopo che quello di accenderne il fuoco quando avrei avuto freddo.
Ahimè! la stagione era mite; il caldo del cuore durava ancora troppo per lasciar sentire il freddo alle membra, – ecco perché quello scritto che non raggiunse il suo scopo di comunicare la fiamma alle fascine del caminetto arse il mio cuore e consunse la mia vita.
Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi – eravamo giovani, artisti, entusiasti, matti del pari – Si fumava spesso la pipa insieme e digerivamo la gloria di là da venire. Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi. Gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore che egli volle leggere il mio scritto e lo trovò bello. «Dammelo,» mi disse «voglio farti amare da quella donna.»
«Eh?!» risposi come sbalordito da quell’enormità.
«Che ci trovi d’impossibile? La donna è così vana! E la ballerina ha tanto bisogno di simili entusiasmi che le facciano la reclame e si comunichino agli altri!»
«Oh! amarmi! Lei… amar me!… Sei matto!»
«Chi lo sa! E poi mi renderai un servigio; mi risparmierai buona parte dell’appendice teatrale che dovrei scrivere. Il tuo articolo è proprio bello; me ne farò onore.»
E lo portò via infatti, e la sera dopo trovai in camera il giornale ed una letterina del mio amico.
« Non te l’avevo detto? « mi scriveva, « il tuo articolo ha fatto furore. Eva desidera conoscerti. Stasera trovati in teatro, ti presenterò. «
Provai come una fitta al cuore. Presentarmi a lei!… io!… così fatto!… a quella bellezza circondata da tante seduzioni, da tanti splendori, che non aveva nulla di terreno!… proprio io!…E in me successe una lotta di mille pensieri diversi, e l’intima soddisfazione ch’ella avesse letto il mio articolo, avesse scorto una parte del mio cuore, e ne fosse lieta… e la ripugnanza di svelare al pubblico e a lei stessa il segreto delle mie impressioni, e il timore che esse fossero giudicate ridicole… Se ella mi trovasse ridicolo?…
Non ebbi neanche un istante il coraggio di pensare ad accettare quell’invito. Eppure ero felice, tutto solo nella mia cameretta, fantasticando cogli occhi fissi sulla fiamma del caminetto.
A un tratto fu suonato il campanello con violenza. Io mi scossi bruscamente. Udii nell’andito la voce di Giorgio. «E così,» mi