I Vicere. Federico De Roberto
sempre l’ultimo al convento.
Adesso i servi accendevano le lampade; e con le finestre chiuse, il calore diveniva intollerabile nella sala. La contessa si sentiva mancare e non vedeva più il marito che aveva seguito donna Isabella nella Sala Rossa a discorrere di Parigi. Ancora una volta aveva accanto lo zio Eugenio e don Cono, i quali continuavano a sviscerare le antiche cronache cittadine e citavano con linguaggio fiorito roba latina.
«I funeri di Carlo V furono celebrati a presenza del Viceré Uzeda…»
«La real cappella tolse luogo nel nostro Duomo, ove fu eretta un’altissima piramide ornata di busti e personaggi, fra i quali l’Italia, la Spagna, la Germania e l’India…»
«Per lo appunto; anzi la epigrafe suonava così:
India mæsta sedet Caroli post funera Quinti…»
«E il disvenamento del corsier favorito?»
«Pei funerali di nostro nonno, alla più corta! Quando morì il principe nostro nonno, si svenò il suo cavallo di coscia…»
«Uso barbarico anziché no. Il nobile corsiere rigava di sangue la via, finché cadeva spirando l’ultimo fia…»
A un tratto don Cono esclamò:
«Contessa, gran Dio!»
Tutti accorsero. Era pallida e fredda, con gli occhi rovesciati e le labbra dischiuse. Suo marito, accorso anche lui con donna Isabella, disse:
«Non è nulla… la fatica del viaggio…» E piano, quasi tra sé, mentre la portavano via: «Le solite smorfie!…»
Giorni di continue novità, quelli! Il domani, come s’aspettava, arrivò il duca. Mancava da cinque anni, e nel primo momento la servitù e gli stessi parenti quasi non lo riconobbero: quand’era partito per Palermo aveva un bel collare di barba alla borbonica, adesso invece s’era lasciato crescere il pizzo che dava un altro carattere alla sua fisonomia. Tutti i nipoti gli baciarono la mano; egli s’informò della disgrazia e si scusò per non esser venuto più presto; si scusò anche, pel disturbo che gli dava, col principe, il quale gli aveva fatto preparare al terzo piano le stanze da lui occupate nella casa paterna prima di lasciarla. Ma il nipote protestò:
«Vostra Eccellenza non mi disturba, mi aiuta… E in questo momento ho più bisogno dei suoi consigli…»
«Sai nulla?»
«Nulla!»
«Tua madre non avrà fatto, spero, una delle sue pazzie…»
«Quel che ha fatto mia madre sarà ben fatto!»
Fu così stabilita la lettura pel domani, a mezzogiorno, e il signor Marco ebbe ordine d’avvertire il notaio, il giudice e i testimoni perché si tenessero pronti. Intanto la notizia dell’arrivo del duca s’era subito diffusa per la città, e le prime visite gli furono annunziate che egli non s’era neppur riposato del viaggio. Venivano a cercarlo una quantità di persone che non si sapeva chi fossero: donna Ferdinanda, a udire i nomi annunziati da Baldassarre: Raspinato, Zappaglione, sgranava tanto d’occhi; don Blasco, da canto suo, soffiava come un mantice; ma il peggio fu verso sera, quando cominciò una vera processione «di tutti i sanculotti morti di fame», gridava il monaco al marchese, «che hanno scroccato o vogliono scroccar quattrini a quell’animale di mio fratello!» Mentre il duca dava udienza agli amici, l’Intendente Ramondino venne a far la sua visita di condoglianza al principe, il quale lo ricevé nella Sala Rossa, insieme col marchese di Villardita e don Blasco. Questi, dimenticando che a San Nicola stavano per serrare i portoni, fece una terribile sfuriata contro l’agitazione dei quarantottisti; ma il rappresentante del governo, stringendosi nelle spalle, pareva non desse importanza ai sintomi di cui si buccinava: in verità, a Palermo avevano arrestato qualche facinoroso; ma, al fresco, le teste calde si sarebbero subito calmate.
«Perché non fate venire altra truppa? Perché non date un esempio?… Il bastone ci vuole: sante nerbate!»
Il monaco pareva inferocito; ma il capo della provincia stringevasi nelle spalle: bastavano i soldati della guarnigione; non c’era paura di niente! Del resto, più che sulle baionette, il governo faceva assegnamento sull’influenza morale dei benpensanti… L’elogio era diretto al principe, che se lo prese; ma don Blasco girava gli occhi stralunati come se, avendo un boccone di traverso, facesse sforzi violenti per inghiottirlo del tutto o vomitarlo.
«E il testamento della felice memoria?» disse l’Intendente, curioso anche lui come tutta la città.
«Sarà aperto domani…»
Entrò a un tratto il duca che strinse la mano all’Intendente e gli si mise a sedere a fianco. Allora don Blasco s’alzò rumorosamente per andar via. E nell’anticamera, al marchese che lo accompagnava:
«Capisci?» gridò. «Tutto il giorno coi sanculotti e adesso si strofina all’autorità! Son cose che mi rivoltano lo stomaco!… In questa casa non metterò più piede!»
Anche donna Ferdinanda, nella stanza di lavoro della principessa, dov’era raccolto tutto il resto della famiglia e alcuni lavapiatti, fiottava contro il fedifrago; ma quando Baldassarre annunziò, sull’uscio, credendo che il duca fosse lì:
«Don Lorenzo Giulente e suo nipote cercano del signor duca…»
«Non se ne può più!» proruppe la zitellona arrossendo fin nel bianco degli occhi. «È uno scandalo! Dovrebbe pensarci la polizia!»
Don Mariano, con aria costernata, esclamò:
«Adesso anche il ragazzo!… È una cosa veramente dispiacevole!… Passi lo zio, che è morto di fame; ma il nipote?…»
«Il nipote?» incalzò la zitellona. «Voi non sapete che la volpe, quando non poté arrivare all’uva, disse che era acerba?»
Lucrezia, impallidita, teneva gli occhi bassi, strappando la frangia della poltrona; il principino Consalvo, seduto vicino alla zia, domandò:
«Perché l’uva?»
«Perché?… Perché pretendevano il consenso reale all’istituzione del maiorasco! E non avendolo ottenuto si sono buttati coi sanculotti!… Il consenso reale!… Come se non ci fosse un certo articolo 948 nel Codice civile che canta chiaro!» E sempre rivolta al ragazzo, il quale la guardava con gli occhi sgranati, recitò, gestendo con un dito e cantilenando: «Potrà domandarsene l’istituzione (del maiorasco) da quegl’individui i di cui nomi trovansi inscritti sia nel Libro d’oro sia negli altri registri di nobiltà, da tutti coloro che sono nell’attuale legittimo possesso di titoli per concessione in qualunque tempo avvenuta, e finalmente da quelle persone che appartengono a famiglie di conosciuta no-bil-tà nel Regno delle Due Sicilie…»
«Io credo che i Giulente sono nobili,» disse Lucrezia, prima che la zia finisse e senza alzare gli occhi.
«Io credo invece che sono ignobili,» ribattè secco donna Ferdinanda. «Se possedevano documenti da far valere, avrebbero ottenuto l’approvazione reale.»
«Nobili di Siracusa…» cominciò don Mariano.
«O Siracusa o Caropepe, se avevano i titoli non gli avrebbero negata l’iscrizione nel Libro rosso!»
«Il Libro rosso è chiuso dal 1813,» annunziò don Eugenio col tono di chi dà una notizia grave.
Lucrezia era rimasta a capo chino, guardando per terra. Quando la zia poté credere d’averla ridotta al silenzio, la ragazza riprese:
«I Giulente sono nobili di toga.»
Un risolino fine fine della zitellona le rispose:
«Gli asini credono che la nobiltà di toga sia paragonabile a quella di spada!… Che differenza passava tra i sei giudici del Real Patrimonio, don Mariano? I tre di cappacorta erano nobili… nobili! e i tre di cappalunga, giurisperiti… giurisperiti!… Adesso sapete com’è?… Tutti i mastri notai si credono altrettanti principi!… Un tempo c’erano i baroni da dieci scudi, oggi ci sono quelli da dieci baiocchi…»
Allora la ragazza s’alzò e andò via. Donna Ferdinanda continuava a sorridere finemente, guardando la contessa Matilde.
Frattanto