I Vicere. Federico De Roberto

I Vicere - Federico De Roberto


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DELLA CARITÀ

      TI FIA RESO

      CENTUPLICATO

      CON L’ESPIATORIE PRECI

      Don Cono declamava, a bassa voce, l’altra iscrizione al canonico Sortini che aveva pescato tra la folla:

      «Conciliar l’invenzione del concetto con la venustà della forma: difficoltà precipua dello stile epigrafico… L’obolo… centuplicato… non so se mi appongo…»

      Adesso l’altar maggiore era tutto una fiamma, dai tanti ceri; il movimento dei frati e dei sagrestani cresceva; sul palco della musica accordavano gli strumenti, un clarino sospirava, gli archetti stridevano, un contrabbasso borbottava; e Baldassarre, aiutato dai camerieri di tutta la parentela, vestiti di nero anch’essi, faceva disporre due file di sedie pei vecchi e le orfanelle: le sedie, tenute alte sulla folla, parevano navigare sul mar delle teste, e poiché sempre nuova gente entrava a furia, la ressa era terribile. I fiati, l’odor di moccolaia, il caldo della giornata facevano della piccola chiesa una bolgia; alcune donne erano già svenute, in due o tre punti si litigava fra chi voleva spingersi avanti e chi non voleva tirarsi indietro; ma nessuno si decideva ad andarsene; e negli angoli, lungo i muri, avanti agli altari, i curiosi, gli scioperati rifacevano la storia della morta e della famiglia, ne commentavano le stravaganze:

      «La cassa con tre chiavi!… Sarà tanto più difficile tornare a questo mondo!… E la tonaca e il rosario!… Tanta penitenza con un funerale da regina!»

      A voce più bassa le male lingue aggiungevano:

      «Dopo l’allegra vita!…»

      Accanto alla pila dell’acqua santa, in mezzo a un crocchio di nobilastri invidiosi e a corto di quattrini, don Casimiro Scaglisi annunziava:

      «E il principe? Non sapete che ha fatto il principe? Quand’ebbe la notizia della morte della madre, scappò al Belvedere senza far chiudere il portone, per avere il tempo d’arrivar solo alla villa, e senza avvertir Ferdinando alla Pietra dell’Ovo…»

      Alcuni protestarono: don Casimiro confermò:

      «Se ve lo dico io!… Per aver tempo di maneggiarsi, di far sparire carte e denari!»

      Tutt’intorno scrollavano il capo: don Casimiro parlava così per astio, giacché fin a tre giorni addietro era stato lavapiatti di casa Francalanza, ma fin da quando la principessa era andata in campagna, il principe non l’aveva più ricevuto, credendolo iettatore.

      «Del resto, scusate,» gli facevano osservare, «che bisogno aveva mai il principe d’allontanare Ferdinando?»

      «Sissignori, fa la vita del Robinson Crusoe alla Pietra dell’Ovo, non s’occupa d’affari e in famiglia lo chiamano il Babbeo, col soprannome messogli da sua madre. Ma che vuol dire? Babbeo o no, il principe non voleva nessuno dei suoi tra i piedi!… Vi dico che lo so di sicuro!»

      Un altro osservò:

      «Non parlate male di Ferdinando; con le sue manìe non fa male a nessuno; è il migliore di tutta la casata.»

      «Tanto che non parrebbe dello stesso seme…» rispose don Casimiro.

      «Sst, sst! Siamo in chiesa,» gl’ingiunsero.

      «Passa don Cono.»

      Don Cono adesso traversava la chiesa per leggere l’iscrizione posta sulla pila dell’acqua benedetta; come fu giunto vicino al crocchio, lo fermarono:

      «Don Cono!… Don Cono!… Voi che avete la vista lunga; come dice lassù?»

      E don Cono compitò:

      IN QUESTO TEMPIO

      OVE IL FRALE SI ACCOGLIE

      DELLA BEATA UZEDA

      CORROBORATE

      FIENO LE PRECI

      DALL’INTERCESSORA PARENTE

      «Bellissimo! Bravo!… Bene l’intercessora…» esclamarono in coro; ma un «sst» prolungato passò di repente di bocca in bocca: il maestro Mascione, appollaiato in cima al palco dell’orchestra, aveva picchiato tre colpi sul leggìo; e le conversazioni morirono, tutte le teste si volsero verso i sonatori.

      In mezzo all’attenzione generale don Casimiro urtò a un tratto col gomito i vicini, esclamando piano:

      «Guardate! Guardate!»

      Entrava in quel punto, protetto contro la folla dal servitore, il vecchio don Alessandro Tagliavia: nonostante l’età, reggeva ancora diritta l’alta persona e dominava la folla con la bella testa bianca e rosea, dagli occhi chiari com’acqua marina e dai baffi bionditi dal tabacco. Non potendo avanzare, guardava da lontano il catafalco, il palco della musica, le tabelle degli epitaffi; e intanto, nel silenzio fattosi come per incanto, l’orchestra intonava il preludio: un lungo gemito, suoni rotti in cadenza come da brevi singulti si diffondevano per la chiesa, e le piangenti riprendevano a lacrimare, mentre i monaci, dinanzi all’altare, cominciavano le genuflessioni. Molti capi si chinarono, al sordo vocìo sottentrò un raccoglimento profondo.

      «Guardate!…» ripeté don Casimiro, nel gruppo accanto alla pila. «È venuto a dirle l’ultimo addio!»

      Tutti avevano gli occhi fissi sul vecchio: il lavapiatti a spasso continuò, interrompendosi quando l’orchestra taceva:

      «Ed io che me lo rammento piangere come un bambino… come un disperato… quando la morta lo lasciò per Felice Cùrcuma… dopo quello che c’era stato fra loro!…Adesso lei è a marcire al colatoio… Lui camperà vent’anni ancora: una salute di ferro…» A voce più bassa, mentre le trombe tratto tratto squillavano e le voci cantavano Requiem aeternam dona eis, aggiunse: «Ed ha la sua brava ragazza, in una villetta al Borgo… Tutte le sere le passa con lei!…»

      Il vecchio tentava ancora di avvicinarsi ad una iscrizione; ma poiché, principiata la messa, nessuno più si moveva, tornò indietro. Giunto sulla porta della chiesa, colpendogli l’aria fresca la fronte, si calcò il cappello sulla testa che non era ancor fuori.

      «Sic transit gloria mundi!…»

      Però, passato il primo effetto della musica, le conversazioni andavano qua e là riappiccandosi; e Raciti, il primo violino del Comunale, borbottava in mezzo agli sconosciuti: «Bell’apparato, non c’è che dire; bella funzione!… La quistione è di sapere chi pagherà!»

      Era furente, dopo che il signor Marco aveva preferito la messa di Mascione a quella di suo figlio; ma si consolava sparlando della casata: non c’era l’eguale per la stitichezza nel pagare; e Titta Caruso, il bollettinaio del teatro, ne sapeva qualcosa, costretto com’era ogni anno a far cento volte le scale del palazzo prima di vedersi pagato l’appalto del palchetto: oggi non c’era il principe, domani non c’era la principessa, un’altra volta mancava il signor Marco, poi erano tutti in campagna…

      «Mio figlio Salvatore non voleva offrir loro la sua messa? Meglio sonarla gratis per le anime del Purgatorio; almeno se ne guadagna altrettanta salute all’anima!»

      E voltò le spalle, furioso, per andarsene, mentre intonavano il Tuba mirum rubato al Palestrina!… Come lui, erano venuti in chiesa quanti eran corsi nei primi momenti al palazzo per offrire i loro servigi; ma i rimasti a mani vuote tiravano adesso in ballo le storie d’avarizia e d’intima spilorceria di quella famiglia il cui lusso era solo apparente: la principessa, una volta, non aveva fatto citare dinanzi al giudice il suo calzolaio perché le restituisse il prezzo di un paio di scarpe non riuscite di suo gradimento? E in cucina, il cuoco non aveva l’ordine di scolar l’olio rimasto nella padella dopo la frittura per riconsegnarlo alla padrona?

      «Più sono ricchi, cotesti porci, più sono spilorci!…»

      Un «zitti!» imperioso troncò le chiacchiere: l’orchestra intonava il Che dirò io misero? e la gente che stava attenta alla musica non voleva esser disturbata. Ma dopo un momento le conversazioni si riannodarono. In certi crocchi di liberali, vantavano il patriottismo del duca Gaspare, sottovoce, però, e guardandosi intorno per paura che qualche spia non udisse.

      «Un colpo al cerchio e un altro alla botte!» esclamava don Casimiro accanto alla pila. «In questa


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