Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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artiglieria siamo debolucci in confronto a loro, – rispose il portoghese, – ora che non abbiamo più i nostri due pezzi da caccia, ma prima che gli assedianti montino all’assalto, ci vorrà del tempo e decimeremo per bene le loro colonne, se vorranno tentare di espugnare a viva forza la nostra fortezza. Basta che i viveri e le munizioni non ci vengano a mancare.

      – Ti ho già detto che siamo ben forniti, specialmente dei primi. Tutte le tettoie ne sono piene.

      – Allora terremo duro fino a che tornerà Kammamuri. Sapendoci in pericolo, Sandokan non indugerà a mandarci altri soccorsi. Quanto avrà impiegato a raggiungere la costa?

      – Non meno d’una settimana.

      – Sicchè a quest’ora dovrebbe essere a Mompracem.

      – Lo spero, se i dayaki non lo hanno ucciso, – rispose Tremal-Naik.

      – Uhm! Assalire un uomo che è scortato da una tigre! Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Quindi, a conti fatti, fra una quindicina di giorni potrebbe essere qui. Terremo duro fino allora e intanto cercheremo di divertire i dayaki facendoli ballare a colpi di mitraglia.

      – E se Sandokan non ci mandasse soccorsi?

      – In tal caso, mio caro amico, ce ne andremo, – rispose Yanez, colla sua calma abituale.

      – Con tutti questi assedianti?!

      – Vedremo se fra quindici giorni saranno così numerosi. Non caricheremo già le spingarde con patate e le carabine con uova di passeri. Terminiamo la nostra ispezione, mio caro Tremal-Naik, e vediamo di fortificare i punti più deboli. Dobbiamo resistere e resisteremo.

      Mentre riprendevano il loro giro, i dayaki si erano accampati intorno alla fattoria, tenendosi fuori di portata dai tiri delle spingarde, costruendo rapidamente, con rami e con foglie di banano, delle capannuccie per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, mentre i loro artiglieri innalzavano senza indugio delle piccole trincee formate di terra e sassi e piazzavano i loro pezzi in modo da poter battere la fattoria tutta all’intorno. Quei cannoni non potevano recare quindi danno alle massiccie tavole che formavano la cinta, essendo il tek un legno durissimo che offre una grande resistenza, tuttavia quando Yanez, terminata l’ispezione, salì sulla torricella con Tremal-Naik e Sambigliong, per dominare tutta la pianura, non potè frenare un gesto di stizza.

      – Quel pellegrino deve essere stato un soldato, – ripetè. – I dayaki non avrebbero mai pensato innalzare delle trincee, nè a scavare dei fossati per ripararsi dai tiri degli avversari.

      – Lo vedi? – chiese in quel momento Tremal-Naik.

      – Chi?

      – Il pellegrino.

      – Come! Osa mostrarsi?

      – Guardalo là, in piedi su quel tronco d’albero che gli artiglieri hanno fatto rotolare dinanzi al mirim per rinforzare la trincea.

      Yanez guardò attentamente nella direzione indicata, poi, tratto da una tasca un binoccolo di marina, lo puntò.

      Sul tronco stava un uomo molto alto e molto secco, vestito tutto di bianco, con alamari d’oro, con scarpe rosse a punta rialzata come usano i ricchi bornesi di Bruni ed il capo difeso da un ampio turbante di seta verde che gli calava fino sugli occhi.

      Pareva che avesse cinquanta o sessanta anni. La sua pelle era assai abbronzata, ma non così oscura nè opaca come quella dei malesi e dei dayaki e anche i suoi lineamenti, che Yanez distingueva benissimo, erano molto più fini e più perfetti di quelli delle due razze dominanti le grandi isole malesi.

      – Parrebbe un arabo o un birmano, – disse Yanez, dopo di averlo osservato a lungo. – Un dayako no di certo e nemmeno un malese. Da dove sarà piombato costui?

      – Non lo hai mai veduto? – chiese Tremal-Naik.

      – Frugo e rifrugo nella mia memoria e mi convinco sempre più di non aver mai avuto a che fare con quell’uomo, – rispose il portoghese.

      – Eppure in qualche luogo dobbiamo averlo veduto. Il suo odio contro di me e anche contro di voi, avendo udito narrare che dopo di me si sarebbe anche occupato delle tigri di Mompracem, deve essere stato motivato da qualche cosa.

      – Ah! Vorrebbe prendersela anche con Mompracem, – disse Yanez, sorridendo. – Si capisce che non conosce ancora quanto valgono i nostri Tigrotti.

      – Si provi a rovesciare le sue orde sulle coste della nostra isola! Vedrà quanti dayaki torneranno alle loro natie foreste. Ah! La danza di guerra! Brutto indizio.

      – Che cosa vuol dire, Yanez?

      – Che i dayaki si preparano alla pugna. Si esaltano prima colla danza quando mettono mano ai kampilang. Sambigliong, va’ ad avvertire i nostri uomini di tenersi pronti e fa’ portare le spingarde ai quattro angoli della fattoria, onde possano battere tutti i punti dell’orizzonte. Quando i dayaki si muoveranno, verremo noi a dirigere la difesa.

      Un centinaio e mezzo di guerrieri, che tenevano in ambo le mani una sciabola, si erano staccati dal grosso su quattro colonne avanzandosi verso il kampong, per eseguire la danza di guerra.

      Giunti a cinquecento passi dalla cinta, mandarono un urlo altissimo, un urlo di sfida, poi formarono quattro circoli, mettendosi a ballare disordinatamente.

      Nel centro avevano deposto i loro kampilang, incrociando l’uno coll’altro in modo da occupare un vasto spazio, poi alcuni avevano tratto dai panieri che portavano appesi al fianco, alcune teste umane che parevano recise di recente, collocandole fra i gruppi formati dalle sciabole.

      Vedendo quelle teste, Yanez aveva fatto un gesto d’ira, a malapena represso.

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