Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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che cosa proviene questo baccano? – gli chiese Yanez.

      – È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, – rispose il pilota. – Saranno certamente moltissimi.

      – Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi?

      – Degli uomini, io credo.

      – Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene.

      – È quello che pensavo anch’io.

      – Che cosa mi consigli di fare?

      – Di allontanarci al più presto.

      – Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?

      – È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.

      – Avanti dunque, – comandò il portoghese, con voce risoluta. – Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki.

      Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d’intensità.

      Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall’incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d’uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.

      Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta.

      Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.

      Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato.

      Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente:

      – Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono!

      Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti.

      Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda.

      Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante.

      Non era che l’avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli.

      Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo.

      Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole.

      – Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! – aveva esclamato Padada.

      Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli.

      Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici.

      – Non muovetevi e non fate fuoco! – aveva ripetuto precipitosamente Padada.

      Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki.

      – Che siano cacciatori? – chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza.

      – Che cacciavano noi, – rispose il malese. – La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l’imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c’incontrino sulla loro corsa e ci travolgano.

      – Possiamo quindi rivederli ancora?

      – È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran.

      – Siamo lontani molto ancora?

      – Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell’alba.

      – Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa.

      – Quale, signore?

      – Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali.

      – Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, – disse Tangusa, che assisteva al colloquio.

      – Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi.

      – E si presteranno a quel giuoco?

      – Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi.

      – Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto!

      Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta.

      Fortunatamente le piante non crescevano così l’una presso all’altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato.

      In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole.

      I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l’altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell’immensa foresta.

      Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi.

      Dopo una buona mezz’ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente.

      – Ci credono ancora lontani dal kampong, – disse il pilota, dopo d’aver ascoltato per qualche po’. – Vanno a cercarci verso il Kabatuan.

      – Quanta ostinazione in quei furfanti, – disse Yanez. – È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata.

      – Eh, signor mio, – rispose Padada, – sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l’espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile.

      – Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l’ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik


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