Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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imbecilli le armi?

      – E anche molto denaro.

      – È vero che un giorno una nave inglese è giunta alla foce del Kabatuan e che quel pellegrino si è abboccato col comandante? – chiese Yanez.

      – Sì, signore, anzi aggiungerò che durante la notte l’equipaggio sbarcò altre casse piene d’armi.

      – Non sai a che razza appartiene quell’uomo?

      – No, signore: quello che vi posso dire è che la sua pelle è oscura assai e che parla il bornese con difficoltà.

      – Che mistero impenetrabile! – mormorò Yanez. – Mi romperò il capo senza riuscire a schiarirlo.

      Stette un momento silenzioso, come se si fosse immerso in un profondo pensiero, poi chiese:

      – Come avevano fatto a sapere che la Marianna giungeva in soccorso di Tremal-Naik?

      – Pare che sia stato un servo dell’indiano a informare i capi dayaki ed il pellegrino.

      – Quale incarico ti avevano dato?

      Il malese ebbe una breve esitazione, poi rispose:

      – Di arenare la vostra nave, innanzi tutto.

      – Non mi ero dunque ingannato, dubitando di te. E poi?

      – Lasciate che non confessi il resto.

      – Parla liberamente: ti ho promesso di lasciarti la vita ed io non manco alla mia parola.

      – Di approfittare dell’assalto dei dayaki per incendiarvi la nave.

      – Grazie della tua franchezza, – disse Yanez, ridendo. – Sicchè avevano deciso la nostra morte?

      – Sì, signore. Pare che il pellegrino abbia avuto qualche motivo di dolersi delle tigri di Mompracem.

      – Anche di noi! – esclamò Yanez, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

      – Chi può essere costui? Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani.

      – Non so che cosa dirvi, signore.

      – Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque?

      – Non vi lascerà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all’ultimo, – disse il pilota. – Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi.

      – E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa?

      – Sì, signor Yanez, – rispose il meticcio.

      – Padada, – disse il portoghese, – sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata?

      – Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi.

      – Dunque la via che va dall’imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera.

      – O almeno poco guardata.

      – Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi?

      – Cinquanta fiorini e due carabine.

      – Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong.

      – Accetto, signore, – rispose il malese, – e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita.

      – Siamo ancora lontani dall’imbarcadero?

      – Fra un paio d’ore vi giungeremo, è vero? – disse Tangusa guardando il malese.

      – Fors’anche prima.

      Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo:

      – Saliamo in coperta.

      Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate.

      Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti.

      La Marianna, che s’avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s’avanzava nell’acqua sorretta da alcune file di pali.

      – L’imbarcadero del kampong di Pangutaran, – avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa.

      – Giù le àncore e accosta, – aveva comandato subito il portoghese. – Alle spingarde gli artiglieri.

      Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all’imbarcadero ai cui pali fu legato.

      Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva.

      Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall’imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme.

      – Pare che non vi sia nessuno qui, – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata.

      – Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, – rispose Tangusa. – Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume.

      – Quanto distiamo dal kampong!

      – Un paio d’ore, signor Yanez.

      – Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci?

      – È probabile. Contate di partire subito?

      – Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti.

      – Quanti uomini prenderemo?

      – Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma.

      Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto.

      Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l’imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti.

      Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell’equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull’imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.

      6. La carica degli elefanti

      Una piccola radura, malamente dissodata, scorgendosi ancora i tronchi degli alberi spuntare dal suolo, si estendeva dinanzi all’imbarcadero e dietro agli avanzi di capanne e di tettoie risparmiate dall’incendio.

      Al di là cominciava la grande e fitta foresta, composta per la maggior parte d’immense felci arboree, di cycas, di durion e di casuarine, e ingombra di rotangs di lunghezza smisurata che formavano delle vere reti.

      Nessun rumore turbava il silenzio che regnava sotto quei maestosi alberi. Solo, di quando in quando, fra il fogliame


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