Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo.

      Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l’incendio.

      Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s’alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo.

      La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell’incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena.

      Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all’altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki.

      – Siamo presi!

      – Ci hanno tagliata la ritirata!

      Yanez era accorso, immaginandosi che cos’era accaduto.

      – Un’altra catena? – chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo.

      – Sì, capitano.

      – Allora l’hanno tesa pochi minuti fa.

      – Così deve essere, – disse Tangusa, che appariva esterrefatto. – Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l’incendio non è ancora attaccato dovunque.

      – Lasciare la Marianna! – esclamò il portoghese. – Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma.

      – Devo mettere in acqua l’altra scialuppa? – chiese Sambigliong.

      Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l’incendio che s’allargava sempre più.

      Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l’equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda.

      – Capitano, – ripetè Sambigliong, – devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo.

      – Fuggire! E dove? – chiese Yanez, con voce pacata. – Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe.

      – Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez?

      – Non siamo ancora cucinati, – rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. – Le tigri di Mompracem sono costolette un po’ dure.

      Poi, cambiando bruscamente tono, gridò:

      – Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto!

      L’equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele.

      La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d’una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni.

      In un baleno fu stesa all’altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave.

      – Manovrate le pompe e inaffiate, – comandò Yanez, quando l’ordine fu eseguito.

      Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d’acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente.

      Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille.

      – Giungono a tempo, – mormorò il portoghese. – Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po’ da lontano! Lo ammirerei meglio!

      Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante.

      I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s’abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti.

      L’aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d’acqua che le innaffiavano.

      Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare.

      Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall’alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate.

      Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l’equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l’ultima ora.

      Solo Yanez, l’uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna.

      Seduto sull’affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini.

      – Signore! – gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, – noi ci arrostiamo.

      Yanez alzò le spalle.

      – Non posso fare nulla io, – rispose poi, colla sua calma abituale.

      – L’aria diventa irrespirabile.

      – Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni.

      – Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l’alto corso.

      – Lassù non farà più fresco di qui, mio caro.

      – Dovremo perire così?

      – Se così è scritto, – rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta.

      Si rovesciò sull’affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: – Bah! Aspettiamo!

      Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti.

      Yanez si era alzato.

      – Come diventano noiosi questi dayaki! – esclamò.

      Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d’acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell’immensa tenda, guardò verso la riva.

      Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino.

      Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell’uomo, che pareva avesse dell’acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche.

      – Ah!


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