Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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la bocca come se si fosse manifestato un principio d’asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s’abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto.

      – L’hai ucciso! – esclamò Yanez.

      – No, signore, – rispose Sambigliong. – L’ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà.

      – Dici davvero?

      – Lo vedrete più tardi.

      – Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo.

      Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero.

      Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore.

      Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lilà, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra e a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l’attacco finale.

      Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso.

      Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse.

      Nonostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta.

      Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco.

      Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato, che non esistevano quasi più.

      – Smonta il mirim, Sambigliong! – gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll’evidente intenzione d’impadronirsi del pezzo d’artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse.

      – Sì, comandante, – rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo.

      – E voi altri mitragliate l’equipaggio prima che venga raccolto, – aggiunse il portoghese, che dall’alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta.

      Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il mirim il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell’equipaggio.

      – Bel colpo! – esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. – Eccone uno che non ci darà più fastidio.

      Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d’acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio.

      Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria.

      Urla feroci s’alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato.

      – Gridate come oche, – disse Yanez. – Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L’affare diventa caldo.

      Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s’avvicinava rapidamente alla Marianna.

      Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni.

      Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi.

      Anzi, sprezzanti d’ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi.

      Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all’abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all’ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani.

      – La faccenda minaccia di diventare seria, – mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. – Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d’un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi.

      S’accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira.

      – Lascia che mi scaldi un po’ anch’io, – disse. – Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui.

      – Le spine li tratterranno, capitano.

      – Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco.

      – Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate.

      – Sia, ma preferisco che non giungano qui.

      Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d’acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò.

      Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto.

      – Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! – gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. – Sgombrate la prora!

      In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d’acciaio irte di punte sottilissime.

      I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso.

      Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini.

      – Stringete le file attorno alle spingarde! – gridò.

      I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all’abbordaggio.

      Le


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