Il re del mare. Emilio Salgari

Il re del mare - Emilio Salgari


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rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l’incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro.

      Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi.

      – Potesse essere caduto anche il pellegrino! – mormorò Yanez. – Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall’esporsi ai nostri tiri.

      Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco.

      – L’hai spezzata la catena? – gli chiese.

      – Sì, capitano Yanez.

      – Sicchè il passo è libero.

      – Completamente.

      – Il fuoco scema verso l’alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, – mormorò Yanez. – Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo.

      La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall’uragano di fuoco che l’aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia.

      Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna.

      Il pericolo quindi che il veliero s’incendiasse, era ormai evitato.

      – Approfittiamo, – disse Yanez. – L’aria comincia a diventare un po’ più respirabile e la brezza è sempre favorevole.

      Fece togliere l’immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini.

      Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati.

      Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata.

      I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere.

      Forse l’incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata.

      – Non si scorgono più, – disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. – Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l’imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti.

      – Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone.

      – Eppure nessuno glielo ha detto.

      – Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all’uomo che vi fu mandato.

      – Che sia così?

      – Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna.

      – Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! – esclamò Yanez. – Giacchè i dayaki ci lasciano un po’ di tregua e l’incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po’ di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino.

      – Se parlerà!

      – Se si ostinerà a rimaner muto, m’incarico io di fargli passare un brutto quarto d’ora. Vieni, Tangusa.

      – Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora.

      In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong.

      Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi.

      Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell’addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all’indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte.

      Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore.

      – Come stai, amico? – gli chiese Yanez con accento un po’ ironico. – Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi.

      Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s’imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso.

      – Orsù, – disse Yanez, – quand’è che ci farai udire la tua voce?

      – Che cosa è avvenuto, signore? – chiese finalmente Padada. – Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro.

      – È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, – rispose Yanez. – Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe.

      – Quale?

      – Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi.

      – Vi giuro, signore…

      – Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla.

      – È una vostra supposizione, – balbettò il malese.

      – Basta, – disse Yanez. – Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik.

      – Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch’io ignoro.

      – Sicchè tu affermi?

      – Ch’io non ho mai veduto alcun pellegrino.

      – E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito?

      – Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l’incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso.

      – Perchè sei pallido allora?

      – Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall’impressione provata, – rispose il pilota.

      – Tu menti come un ragazzo, – disse Yanez. – Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai.

      – Che cosa volete fare, signore? – chiese il miserabile con voce tremante.

      – Tangusa, – disse Yanez, volgendosi verso


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