Il re del mare. Emilio Salgari
americani.
Yanez ed i suoi uomini, dopo essere rimasti qualche tempo in ascolto, un po’ rassicurati da quella calma e dal contegno pacifico d’una coppia di scimmie buto sopra un banano, dopo aver fatto un giro intorno alle capanne, si inoltrarono verso la foresta, esplorandone i margini per una larghezza d’un mezzo miglio, senza trovare alcuna traccia dei loro implacabili nemici.
– Pare impossibile che siano scomparsi, – disse Yanez, a cui riusciva inesplicabile quell’improvvisa tregua dopo tanto accanimento. – Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso?
– Uhm! – fece il pilota. – Se il pellegrino aveva giurato la vostra perdita, ritengo che farà il possibile per avere le vostre teste.
– Mettici anche la tua nel numero, – disse il portoghese. – Torniamo a bordo e aspettiamo la notte.
Il ritorno lo compirono senza essere stati molestati, confermandosi vieppiù nella supposizione che i dayaki non fossero ancora giunti in quei dintorni.
Appena calato il sole, Yanez fece subito i preparativi della partenza. Vi erano ancora a bordo trentasei uomini, compresi i feriti.
Ne scelse quindici, non volendo indebolire troppo l’equipaggio il quale poteva, durante la sua assenza, venire assalito, e verso le nove, dopo aver raccomandato a Sambigliong la più attiva sorveglianza onde non si facesse sorprendere, ridiscendeva a terra con Tangusa, il pilota e la scorta.
Erano tutti formidabilmente armati, con carabine indiane di lungo tiro e parangs, quelle terribili sciabole che con un solo colpo decapitano un uomo, e ampiamente provvisti di munizioni, ignorando se Tremal-Naik ne avesse tante da poter reggere anche ad un assedio.
– Avanti e soprattutto fate meno rumore che sia possibile, – disse Yanez, nel momento in cui si cacciavano sotto i boschi. – Noi non siamo ancora sicuri di trovare la via sgombra.
Si volse indietro per dare un ultimo sguardo al veliero, la cui massa spiccava vivamente sulle acque del fiume, semi-confusa fra i vegetali che crescevano sulla riva e senza sapere il perchè, provò una stretta al cuore.
– Si direbbe che ho un brutto presentimento, – mormorò con inquietudine. – Che lo perda?
Scacciò l’importuno pensiero e si mise alla testa della scorta, preceduto di pochi passi dal meticcio e dal pilota, i soli che potessero orientarsi in mezzo a quel caos di enormi vegetali e fra le reti immense formate dai nepentes, dai gomuti e dai rotangs.
Come al mattino un silenzio profondo regnava sotto quella infinita volta di verzura, come se quella foresta fosse assolutamente priva di animali feroci e di selvaggina. Persino gli uccelli notturni, quei grossi pipistrelli pelosi, che sono così comuni nelle isole malesi, mancavano. Solo le lucertole cantanti, che sono per lo più notturne, facevano udire di tratto in tratto il loro lieve grido stridente.
Essendo il cielo coperto, un’afa pesante regnava sotto le immense foglie, incrociantisi strettamente a trenta o quaranta metri dal suolo.
– Si direbbe che minaccia un uragano, – disse Yanez che respirava con grande fatica.
– E scoppierà presto, signore, – rispose il meticcio. – Ho veduto il sole tramontare fra una nuvola nerastra e giungeremo appena a tempo al kampong.
– Se nessuno ci arresterà.
– Finora, signore, i dayaki non si sono mostrati.
– Purchè non li troviamo presso il kampong. Speriamo che abbiano levato l’assedio.
– Non saranno tanti da opporre una seria resistenza, almeno pel momento. Quelli che ci hanno aspettati alla foce del fiume forse non sono ancora tornati.
– Se tardassero solo ventiquattro ore, non li temerei più, – rispose Yanez. – La Marianna, con equipaggio rinforzato, diverrebbe imprendibile. Avrà molti difensori Tremal-Naik?
– Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez.
– Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l’alba sorga.
La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile.
Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza.
– Mano ai parangs, – disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare.
– Faremo rumore, – osservò il pilota.
– Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro.
– I dayaki possono udirci, signore.
– Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci.
A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca, continuarono ad inoltrarsi nell’interminabile foresta.
Marciavano da un’ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s’arrestò bruscamente, dicendo:
– Fermi tutti.
– I dayachì? – chiese sotto voce Yanez, che lo aveva subito raggiunto.
– Non lo so, signore.
– Hai udito qualche cosa?
– Dei rami scricchiolare dinanzi a noi.
– Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale.
Si gettò a terra trovandosi dinanzi a un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d’aver udito i rami scricchiolare.
Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore.
Percorsero così una cinquantina di metri e s’arrestarono sotto le enormi corolle d’un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole.
Essendovi intorno a quel fiore un po’ di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta.
– Padada non si era ingannato, – disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po’ in ascolto.
– Sì, qualcuno si avvicina, – confermò il meticcio.
– E questo cos’è? – chiese a un tratto Yanez.
In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall’avanzarsi di qualche furgone o d’un treno ferroviario.
– Non è il tuono, – disse il portoghese.
– Non lampeggia ancora, – disse Tangusa.
– Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa.
– Non è caduta ancora una goccia d’acqua e poi il Kabatuan è lontano.
– Che cosa sarà?
– E s’approssima rapidamente, signore.
– Verso di noi?
– Sì.
– Taci!
Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro.
La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi.
– Non comprendo assolutamente nulla, – disse finalmente Yanez, rialzandosi. – È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero.
Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infinti sarmenti.
Quando