Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - Emilio Salgari


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due malandrini».

      «Malandrini! Oibò! V’ingannate, señor» rispose Carmaux. «Siamo più galantuomini di quello che credete e potrete persuadervene frugando le vostre tasche, appena vi avremo sciolte le mani.

      «Che cosa volete dunque da me? Perché m’avete rapito? Suppongo che non mi ripeterete la storiella del signor presidente dell’Udienza reale di Panama».

      «Veramente quel signore non c’entra più» disse Carmaux. «Vi condurremo però dinanzi ad una persona che è non meno potente e che del pari non scherza».

      «Chi è costui?»

      «Un altissimo personaggio, che pare s’interessi assai della sorte della figlia del Corsaro Nero e che farà di tutto per salvarla».

      «Toglierla al governatore!… Eh, via, quell’uomo non se la lascerà sfuggire».

      «La vedremo, quando i cannoni smantelleranno le fortezze di Maracaybo» rispose Carmaux. «Venti anni or sono quegli stessi pezzi hanno spazzato via la guarnigione».

      Don Raffaele era diventato spaventosamente pallido.

      «Sareste dei filibustieri, voi?» chiese con voce strozzata.

      «Per servirvi, señor».

      «Misericordia!… Sono un uomo morto!…»

      «Non mi sembra, almeno per ora» disse Carmaux, ironicamente.

      «Chi è il vostro capo?»

      «Morgan».

      «L’antico luogotenente del Corsaro Nero!… Il vincitore di Portobello?»

      «Lo stesso».

      «Povero me!… Povero me!…» sospirò il disgraziato.

      «Oh! Non spaventatevi tanto, señor» disse Carmaux. «Il capitano Morgan non ha mai mangiato alcuno e passa per un buon gentiluomo».

      «Sì, un gentiluomo che ha fatto massacrare tutti i frati e tutte le monache di Portobello».

      «Già, è l’inferno che ci ha vomitati» disse l’amburghese ridendo. «Così almeno dicono i vostri frati.

      «Señor, lasciate andare le vostre collere, e accettate un crostino. Abbiamo qui un po’ di biscotto, una bella anitra arrostita ieri mattina e anche un paio di bottiglie di vino spagnolo, che non varranno meno di quelle del taverniere.

      «È poca cosa per un signore pari vostro, ma per il momento non abbiamo di meglio da offrirvi».

      Carmaux trasse dalla cassa le provviste, ne fece tre parti uguali e slegò le braccia al prigioniero, dicendo:

      Don Raffaele, a cui la brezza marina aveva messo indosso un certo appetito, pur brontolando e roteando gli occhi, si mise a mangiare e non rifiutò un paio di bicchieri di Porto offertigli con gentilezza un po’ ironica da Carmaux, né un eccellente sigaro di tabacco di S. Cristoforo regalatogli dall’amburghese.

      A mezzodì la baleniera si trovava già nelle acque del golfo Caro, formato da una parte dalla costa venezuelana e dall’altra dalla penisola di Paraguana.

      L’amburghese, che teneva sempre il timone e che si regolava su di una bussola tascabile, mise la prora verso il capo Cardon, che già si delineava vagamente sull’orizzonte.

      Il golfo era deserto, poiché di rado le navi spagnole ardivano spingersi lontane dai porti ben difesi, se non erano in buon numero e per lo meno scortate da qualche nave d’alto bordo, per paura di venire catturate dai terribili corsari della Tortue.

      La baleniera continuò tutto il giorno ad inoltrarsi verso settentrione, favorita da una brezza sempre fresca e dalle acque che erano appena mosse. Nel momento in cui il sole tramontava, giungeva dinanzi alla baia d’Amnay, rifugio in quell’epoca affatto disabitato e molto di rado frequentato dalle navi, che non vi cercavano un approdo se non in causa di qualche violentissima tempesta.

      «Ci siamo» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.

      Il disgraziato piantatore, che dopo la colazione si era chiuso in un ostinato silenzio, sospirò a lungo, senza rispondere.

      La scialuppa manovrò per alcuni minuti in mezzo ad alcune catene di scoglietti a fior d’acqua, poi si cacciò arditamente nella baia, alla cui estremità si vedevano delle masse oscure sormontate da alte alberature ed antenne.

      «Che cosa sono? Delle navi?» chiese don Raffaele che erasi fatto smorto.

      «È la flotta del capitano Morgan» rispose Carmaux.

      «Una flotta?»

      «Che farà buona prova contro i forti di Maracaybo».

      Dietro una punta rocciosa era comparsa improvvisamente una grossa fregata, che si trovava ancorata dinanzi alle altre navi, in modo da sbarrare l’entrata della baia,.

      «Ohè!» gridò Carmaux, facendo portavoce colle mani.

      «Chi vive?» gridò una voce alzatasi sul ponte della nave.

      «Fratelli della Costa: Carmaux e Wan Stiller. Calate la scala!»

      La baleniera accostò la nave sotto il tribordo e si ormeggiò all’estremità della scala di corda, che era stata subito gettata dagli uomini di guardia.

      «Señor, coraggio» disse Carmaux, sciogliendo le corde che stringevano le gambe del piantatore.

      «Sì, ne avrò per morire» disse don Raffaele con voce cupa.

      Quantunque si sentisse tremare le gambe, si aggrappò alla scala e dopo una mezza dozzina di sospiri, gli uni più profondi degli altri, si trovò sulla nave ammiraglia della flotta corsara.

      Alcuni uomini, armati fino ai denti e muniti di lanterne, accorsero subito circondandolo e guardando con viva curiosità.

      «Il capitano?» chiese Carmaux.

      «È nella sua cabina».

      «Fate chiaro. Venite, señor e non tremate tanto».

      Prese il piantatore per un braccio e, parte spingendolo e parte tirandolo, lo condusse nel quadro, introducendolo in un salotto che era illuminato da una lampada d’argento e che aveva le pareti coperte d’armi da fuoco e da taglio.

      Un uomo di mezza età, di statura piuttosto bassa, ma robustissimo, dall’aspetto fiero, cogli occhi nerissimi e vivaci, stava seduto dinanzi ad un tavolo tenendo dinanzi a sé delle carte marine, che stava esaminando con profonda attenzione.

      Vedendo entrare i due uomini s’alzò quasi di scatto, chiedendo:

      «Che cosa mi porti, mio bravo Carmaux?»

      «Un uomo, signore, che potrà dirvi quanto desiderate sapere sulla figlia del cavaliere di Ventimiglia».

      Una rapida emozione alterò per un istante i fieri lineamenti del terribile corsaro.

      «È là, è vero?» chiese a Carmaux.

      «Sì, capitano».

      «Nelle mani degli spagnoli?»

      «Prigioniera del governatore».

      «Grazie, Carmaux: esci e lasciami solo con quest’uomo».

      Capitolo quarto. Morgan

      Morgan, dopo la scomparsa del suo comandante, il Corsaro Nero, non aveva abbandonato il golfo del Messico, né i filibustieri della Tortue.

      Dotato d’una forza d’animo straordinaria, d’un coraggio a tutta prova e di larghe vedute, non aveva tardato a farsi largo fra i Fratelli della Costa, i quali si erano ben presto accorti che quell’uomo avrebbe potuto condurli a grandi imprese.

      Possessore ancora d’una discreta fortuna, raccolti gli avanzi dell’equipaggio della Folgore, si era subito messo in mare, accontentandosi dapprima di assalire le navi isolate, che commettevano l’imprudenza di solcare senza scorta, le acque di San Domingo e di Cuba.

      Quella crociera, più pericolosa che fruttifera, durava daparecchi anni con varia fortuna, quando gli venne offerto il comando di una squadra composta di dodici navi fra


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