Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari
non si perdettero d’animo ed accolsero la squadra con un furioso cannoneggiamento, credendo di affondarla facilmente o per lo meno di costringerla a tornare nel golfo.
Avevano però da fare con gente che non s’inquietava gran che delle cannonate.
Malgrado quella grandine di palle, le navi corsare continuavano tranquillamente ad accostarsi, senza prendersi la briga di rispondere.
Qualche albero e qualche pennone cadeva, qualche murata si sfasciava qualche filibustiere venivano mutilato o fulminato da quelle incessanti scariche, eppure nessuno osava trasgredire l’ordine dato da Morgan, tanto era ferrea la disciplina che regnava sui vascelli corsari.
Già la Folgore non si trovava che a due gomene dalla spiaggia e si preparava a calare in mare le scialuppe, quando tutto quel furioso cannoneggiamento come per incanto cessò.
Diradatosi il fumo che ondeggiava sugli spalti, gli equipaggi con loro grande stupore non scorsero più nessun uomo dietro alle artiglierie.
«Che cosa vuol dir ciò?» si chiese Morgan, che non aveva abbandonato per un solo istante il ponte di comando. «Che si arrendano? Eppure ritenevano questo forte inespugnabile. Pierre le Picard!…»
Il filibustiere che portava quel nome e che, come abbiamo detto, aveva il comando in seconda e che godeva fama di essere uno dei più intrepidi Fratelli della Costa, lasciò la ribolla del timone, raggiungendo il comandante.
«Che cosa ne pensi tu di questo improvviso silenzio?» gli chiese Morgan. «Che nasconda qualche sorpresa?»
«Vado ad assicurarmene» rispose il filibustiere, senza esitare. «Datemi quaranta uomini, tenetene pronti altri cento e do la scalata al forte».
Le scialuppe erano state già calate in acqua. Il filibustiere scelse i suoi uomini e vogò verso terra, mentre le altre navi si preparavano a sbarcare parte dei loro equipaggi, onde appoggiarlo nell’ardimentosa impresa.
Morgan, che temeva una sorpresa, fa scaricare tutti i venti cannoni di tribordo, tempestando le difese avanzate del castello, ma nessuno rispose, né alcun soldato si mostrò.
I quaranta corsari della Folgore, sbarcati a terra, presero a scalare le rocce, armati solamente d’una pistola e d’una corta sciabola, lottando in celerità per giungere primi. Giunti sotto le mura scagliarono fra i merli alcune granate mandandole a scoppiare al di là delle cinte, poi montando gli uni sulle spalle degli altri, si arrampicarono sulla cinta esterna e la scalarono mandando urla terribili.
Non trovano altro che i cannoni e pochi fucili abbandonati dal nemico nella sua precipitosa ritirata. Il presidio, credendo di non poter arrestare i corsari e spaventato dal numero delle navi, si era ritirato precipitosamente in Maracaybo, accontentandosi di mettere una miccia accesa al magazzino delle polveri, perché con esse saltassero in aria anche i nemici.
Fortunatamente i corsari non erano ancora entrati nel forte quando lo scoppio avvenne.
Crollarono con immenso fracasso le casematte, le merlature e parte delle muraglie, aprendo qua e là delle enormi breccie, senza però danneggiare l’equipaggio della Folgore.
Udendo quel rombo spaventevole e vedendo innalzarsi quella colonna di fumo, i marinai delle altre navi si erano affrettati a prendere terra per accorrere in aiuto dei loro camerati che credevano di trovare malconci e anche alle prese cogli spagnoli, e furono invece accolti da altissime grida di vittoria.
Morgan, informato della ritirata del presidio, decise senz’altro d’investire la città, prima che i suoi abitanti potessero rifugiarsi nei boschi e mettere in salvo i loro tesori.
Lo scoppio del forte aveva già sparso il terrore fra quella disgraziata popolazione, che aveva già provati gli orrori del saccheggio, compiuto vent’anni prima dai filibustieri del Corsaro Nero, di Pietro l’Olonese e di Michele il Basco.
Invece di prepararsi alla difesa tutti gli abitanti si erano dati a fuga precipitosa nei boschi vicini, portando con sé quanto aveva di meglio, e anche fra i soldati della guarnigione regnava un panico, che la presenza del governatore e dei suoi ufficiali non bastava a dissipare.
Il nome di Morgan, l’espugnatore di Portobello, faceva titubare i più vecchi soldati, che pur avevano date tante prove di valore sui campi dell’Europa e che avevano conquistati e rovesciati imperi, come quelli degli Aztechi nel Messico e degli Incas nel Perù.
I filibustieri, lasciati pochi uomini a guardia della squadra e saliti sulle scialuppe, si accostarono velocemente alle banchine del porto. Morgan era alla loro testa con Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller.
Vedendoli sbarcare, gli spagnoli, che erano pure in buon numero e che avevano innalzate frettolosamente delle trincee, avevano aperto un violentissimo fuoco di moschetteria, mentre i due fortini che proteggevano la città dal lato di terra, facevano rombare i loro grossi cannoni. Era però ormai troppo tardi per arrestare quei filibustieri, che le possenti e numerose artiglierie del forte della Barra non avevano saputo trattenere né schiacciare.
I bucanieri, che si trovavano sempre in buon numero sulle navi corsare e che, in quell’epoca, erano i migliori bersaglieri del mondo, con scariche ben aggiustate, avevano ben presto costretto il presidio ad abbandonare le trincee ed a salvarsi con una fuga più che precipitosa.
Dieci minuti dopo, le bande di Morgan irrompevano nelle vie della disgraziata città, invadendo le case e uccidendo senza misericordia quanti tentavano di opporre resistenza.
Capitolo sesto. Don Raffaele
Mentre i filibustieri s’abbandonavano al saccheggio, Morgan con una cinquantina dei suoi marinai si era diretto verso il palazzo del governo, dove sperava di sorprendere ancora il governatore e dove supponeva di trovare qualche resistenza.
Non vi era invece più nessuno. Tutti erano fuggiti, lasciando il portone spalancato ed il ponte levatoio abbassato.
Solo sette forche, dalle quali pendevano i sette corsari che avevano accompagnato il piantatore, facevano triste mostra, proprio nel mezzo dell’ampia e deserta piazza.
Nello scorgerli, un urlo di rabbia era scoppiato fra il drappello di Morgan.
«Bruciamo il palazzo del governatore!… Vendetta, capitano, vendetta!… Trucidiamo tutti!…»
Pierre le Picard, che faceva parte del drappello, gridò:
«Portate qui due barili di polvere e facciamo saltare il palazzo!…»
Già degli uomini stavano per slanciarsi in varie direzioni, quando un comando breve ma energico di Morgan li arrestò.
«Sono io che comando qui!… Chi si muove è uomo morto!…»
Il filibustiere si era gettato fra la turba furibonda, colla spada nella destra e una pistola nella sinistra.
«Insensati!…» urlò. «Che cosa siamo venuti a far qui? E non pensate che forse in questo palazzo, in qualche antro segreto si trova la figlia di cavalier di Ventimiglia? Volete ucciderla per una stupida vendetta?»
A quelle parole l’ira furibonda dei filibustieri era improvvisamente sbollita. Chi poteva assicurare che il governatore, prima di fuggire, non avesse nascosta in qualche sotterraneo la fanciulla, per la cui salvezza avevano tentato quell’ardito colpo di mano?
«Invece di gridare come oche» disse l’almirante della flotta corsara, «cercate di fare quanti prigionieri potete. Qualcuno saprà dirci dove si trova la figlia del Corsaro Nero.
«Questo si chiama parlare d’oro» disse Carmaux che faceva parte del drappello. «Ehi, amburghese, dove sei?»
«Eccomi, compare» rispose Wan Stiller.
«In caccia, amico mio. Cerchiamo di prendere qualche pezzo grosso».
Mentre Morgan entrava con parecchi dei suoi ufficiali nel palazzo del governo, per frugarlo da cima a fondo, e gli altri si disperdevano in varie direzioni per procurarsi dei prigionieri, Carmaux e l’amburghese, che conoscevano sufficientemente la città essendovi stati già due volte col Corsaro Nero molti anni prima, presero un viottolo che serpeggiava fra le muraglie di alcuni giardini.
«Dove mi conduci?» chiese l’amburghese,