Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. Emilio Salgari

Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - Emilio Salgari


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credo, che il governatore abbia avuto il coraggio di lordarsi le mani del proprio sangue».

      «Che cosa dite?» chiesero ad una voce i due filibustieri.

      Il piantatore si morse le labbra come se si fosse pentito di essersi lasciate sfuggire quelle parole, poi alzando le spalle disse:

      «Io non ho giurato di mantenere il segreto e poi la mia vita si trova nelle vostre mani ed io ho il diritto di difenderla come meglio posso».

      Carmaux tracannò un sorso d’Alicante, poi incrociando le braccia e piantando gli occhi in viso al piantatore, disse:

      «Don Raffaele, spiattellate. Di quale sangue parlavate?»

      «Avrete la pazienza di ascoltarmi?»

      Carmaux stava per rispondere, quando alcuni colpi di fucile rimbombarono sulla piazza e parecchie persone passarono correndo dinanzi alla taverna, gettandosi verso le vicine ortaglie.

      Cinque o sei filibustieri, che avevano in mano gli archibugi ancora fumanti, vedendo l’insegna del Toro, si erano affacciati alla porta della taverna, urlando:

      «Una cantina! Hurrà! Buchiamo le botti!»

      Carmaux si slanciò verso di loro coll’archibugio in mano, gridando:

      «Indietro, camerati!»

      «Toh!» esclamò uno di quei corsari. «I due inseparabili!… Volete bere tutto voi?… Satanasso!… Lo spagnolo che ha fatto impiccare i nostri compagni!… Abbruciamolo vivo!…»

      «È nostro prigioniero» gridò Carmaux.

      «Fosse anche del diavolo, io non me ne andrò se prima non gli avrò bucato il ventre» disse un altro corsaro. «Largo, camerata! Quell’uomo appartiene alla giustizia dei Fratelli della Costa».

      Il povero don Raffaele, che era diventato paonazzo dal terrore, si era rifugiato dietro la tavola, cercando di farsi più piccino che poteva.

      «Levatevi dai piedi!» urlò Carmaux, puntando risolutamente l’archibugio verso i filibustieri che si spingevano l’un l’altro per entrare. «Quest’uomo è una preda dell’almirante».

      Udendo quelle parole, i corsari si arrestarono titubanti, poi volsero le spalle allontanandosi di corsa, tanto era il terrore che esercitava Morgan anche su quell’accozzaglia di scorridori del mare, che pur non riconoscevano né leggi, né governo.

      «Parlate, ora» disse Carmaux, tornando verso il piantatore. «Nessuno verrà più a disturbarci».

      Don Raffaele bevette d’un fiato un bicchiere d’Alicante, per riprendere coraggio, poi disse:

      «L’istoria che io sto per narrarvi è un segreto che solo pochissimi spagnoli conoscono e che voi ignorate. Vorrei però sapere, prima di cominciarla, quale causa dell’odio implacabile che regnava fra il Corsaro Nero, signor di Ventimiglia, ed il duca Wan Guld, un tempo governatore di questa città.

      «Voi che siete stati marinai e forse confidenti del terribile corsaro, che tanto male ha recato alle nostre colonie, dovete saperne qualche cosa e ciò schiarirebbe forse l’odio che il governatore attuale nutre ora per la giovine figlia di quello scorridore del mare».

      «Come!» esclamò Carmaux. «Il governatore odia la figlia del Corsaro Nero? Non è dunque solo l’interesse che lo ha spinto a farla prigioniera?»

      «No, è odio di sangue» disse don Raffaele, con voce grave. «Se il duca è morto ha lasciato un vendicatore che non sarà meno implacabile di lui».

      «Che cosa mi narrate voi?» disse Carmaux, spaventato.

      «Rispondete alla domanda che vi ho fatta, poi io mi spiegherò meglio».

      Capitolo settimo. Il monastero dei Carmelitani

      Carmaux, che pareva in preda ad una vivissima agitazione, stette qualche istante silenzioso guardando il piantatore, poi disse:

      «L’odio fra il Corsaro Nero ed il duca di Wan Guld risale circa a venticinque anni fa e non ebbe principio in America, bensì nelle Fiandre. I signori di Ventimiglia erano allora in quattro fratelli e combattevano fra le truppe dei duchi di Savoia, alleati della Francia, contro la Spagna. Belli tutti, valorosi, audaci, godevano fama d’essere i più nobili gentiluomini del Piemonte. Un giorno essi vennero assediati in una rocca fiamminga da un numero strabocchevole di spagnoli, assieme al loro reggimento che era comandato dal duca di Wan Guld. Resistevano tenacemente da alcune settimane, combattendo come leoni, quando una notte il nemico entrava nella rocca a tradimento e se ne impossessava, dopo d’aver ucciso uno dei quattro fratelli che era accorso a contrastargli il passo. Un uomo aveva venduta la rocca ed aveva aperte le porte: quel miserabile era il duca di Wan Guld».

      «Avevo udito a parlare vagamente di quella storia» disse don Raffaele. «Continuate».

      «Il duca, per sfuggire all’ira dei signori di Ventimiglia, aveva chiesto al governo spagnolo un posto nelle colonie dell’America ed era stato nominato governatore di questa città».

      «Era il prezzo del tradimento» disse l’amburghese, picchiando il pugno sulla tavola.

      «Il duca» proseguì Carmaux, «credeva di essere stato dimenticato dai signori di Ventimiglia, ma s’ingannava. Non erano ancora trascorsi sei mesi da che aveva assunto il suo posto, quando comparvero alla Tortue tre navi, montate dai tre fratelli piemontesi. Erano il Corsaro Nero, il Verde ed il Rosso, i quali avevano giurato di non lasciar più pace al traditore e di vendicare il fratello assassinato nella rocca».

      «Conosco il seguito» disse don Raffaele. «Dopo varie vicende, il duca riusciva a catturare ed impiccare il Corsaro Verde e poi il Rosso, mentre il Nero, senza saperlo, s’innamorava della figlia del suo mortale nemico, che egli credeva fosse una principessa fiamminga».

      «Sì, è così» rispose Carmaux. «E quando il Corsaro Nero, che aveva giurato, sui cadaveri dei fratelli, di sterminare senza misericordia tutti coloro che portavano il nome del traditore, seppe che la fanciulla che amava era la figlia del duca, pur piangendo, l’abbandonò sola fra le onde in una scialuppa, quando la tempesta stava per scoppiare sul golfo del Messico. Dio però vegliava sulla fanciulla e la scialuppa, invece di venire assorbita dai gorghi, andava a naufragare sulle coste meridionali della Florida, abitate da una tribù di Caraibi, i quali, sedotti dalla bellezza meravigliosa della naufraga, invece di divorarla la proclamarono la loro regina».

      «Ed il Corsaro uccise il duca, è vero?» chiese don Raffaele.

      «No, perché venuti all’abbordaggio alcuni mesi dopo, appunto nelle acque della Florida, il vecchio traditore, piuttosto di cadere vivo nelle mani del suo nemico, dava fuoco alle polveri inabissandosi colla propria nave fra i baratri del Golfo del Messico».

      «Il Corsaro era già a bordo di quella nave?»

      «Sì, e anche noi» disse Carmaux, «avevamo già espugnato il vascello del duca, quando l’esplosione ci scaraventò in mare assieme al Corsaro. Salvatici su alcuni rottami, per una fortunata combinazione, due giorni dopo approdavamo sulle coste della Florida, dove venivamo fatti prigionieri dai sudditi della duchessa, la regina dei Caraibi. Se non ci mangiarono fu perché la figlia di Wan Guld ci aveva riconosciuti a tempo e perché non si era spenta ancora in lei l’affezione profonda che nutriva per il Corsaro».

      «E non si vendicò?» chiese don Raffaele.

      «Tutt’altro, perché una sera s’imbarcarono insieme su una scialuppa e per molti anni non si seppe più nulla di loro. Più tardi un filibustiere italiano ci narrò come il Corsaro e la giovane duchessa erano stati raccolti al largo da una nave inglese in rotta per l’Europa e condotti in Piemonte, dove si erano sposati.

      «La loro felicità, come forse avrete saputo anche voi, fu breve. Dieci mesi dopo, la duchessa moriva dando alla luce una bambina e l’anno seguente il Corsaro, che non poteva rassegnarsi alla perdita della sua compagna, si faceva uccidere sulle Alpi, combattendo contro i francesi che avevano invasa la Savoia e che minacciavano il Piemonte».

      «Sì, è così» disse don Raffaele. «Il governatore di Maracaybo era stato esattamente informato».

      «Perché


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