La battaglia di Benvenuto. Francesco Domenico Guerrazzi
nè tavola, o che altro; solo una lampada involta dentro velo nero, appesa al soffitto, tristamente la illuminava. Traccia di balcone nessuna. Nella parete volta a mezzogiorno si vedeva un tabernacolo simile in tutto a quelli che, con troppo generale denominazione, soglionsi oggi giorno chiamare gotici, e questo pur nero, quantunque se di marmo o di legno non abbia conservato la cronaca. Ma se di tabernacolo gotico aveva la tavola, sporgente dal muro, sostenuta da beccatelli traforati a fogliami, le colonne a spirale contro ogni regola di architettura soverchiamente sottili, e frontone protratto in angolo acuto, frastagliato di ornati, senz’altro sodo o cornice posato sui capitelli delle colonne, non aveva però in sè Santo, o Madonna, siccome nei tabernacoli gotici anche oggidì osserviamo. L’aspetto di questa camera faceva supporla destinata ad uffizio di Oratorio, benchè non si discernesse a cui fosse consacrata.
Lì presso al tabernacolo stava immobile un uomo di persona più alta della comune; vestiva cappa di panno oscuro, cinta strettamente alla vita. Il suo sembiante..... oh! il suo sembiante era tale, che chi lo mirava per nessuna altra cosa sapeva più supplicare l’Eterno, se non per ottenere dalla sua pietà la dimenticanza di cotesto volto. La sensazione che agitava la gente alla sua vista non può ridirsi che per via di paragone, assomigliandola a quella che suscita nel cuor dell’uomo sospeso sopra lo abisso delle acque l’urlo salvatico del mostro marino. I colori della malattia e della paura gli stavano su la fronte: le guance aveva emaciate, il labbro tumido, e acceso. Nessuna scintilla, che accennasse la vita, balenava nei suoi occhi incavati, coperti di un velo, intenti, ghiacciati. Angeli del Paradiso! Parevano quelli di un Vampiro. La sua immobilità, e le membra abbandonate a sè stesse, facevano riputarlo un morto, così fissato in piedi lungo la parete per indurre a penitenza con tanto spaventoso spettacolo chiunque si fosse vôlto a pregare là dentro; ma facendosegli assai da vicino, vivo lo manifestavano il grave respiro, e il tremolare del labbro superiore in brivido affannoso.
Poichè lungamente stette così senza dare quasi segno di vita, prese a camminare per la stanza; ma l’anima, assorta in ben altri pensieri, non dirigeva quei moti. Il suo corpo era lo stesso che abbiamo descritto qui sopra, se non che si moveva; ma i suoi passi non avevano oggetto nessuno. Ora andava direttamente fino alla parete, dove percotendo si ritraeva; ora giunto alla metà della camera piegava a destra, o a sinistra; spesso anche in circolo si aggirava. Io ho veduto il sonnambulo, ho veduto il maniaco, ma non vive cosa nel mondo che possa uguagliare l’orrore che ispirava costui.
Con gli occhi sempre fissi al soffitto, si volse a un tratto verso il tabernacolo: brancolando per lo interno, pervenne a trovare un bottone appena visibile, lo spinse, e si manifestò certa apertura dalla quale trasse una cassetta nera sottilmente ornata di lavori di argento. Ricercandosi poi sotto le vesti, rinvenne la chiave: la sua mano, adesso divenuta fuori di misura paralitica, errò assai tempo prima di trovare il serrame: trovatolo, applicò la chiave, lo schiuse, e la cassetta aperta lasciò vedere un teschio umano politissimo, con estrema diligenza conservato. Lo prese costui con ambedue le mani, e, postolo sulla tavola del tabernacolo, lasciò con dura percossa cadersi prostrato innanzi di quello, tenendo la faccia sempre vôlta al soffitto, e le braccia incrociate in atto di preghiera.
Era certamente trapassata un’ora ch’ei stava in questa posizione, quando, abbassato il capo, si mise a riguardare fissamente il teschio. I suoi occhi prima velati ardevano adesso di terribile luce; bentosto si fecero rossi, scintillanti, ma non versarono lagrima; forse la sua disperazione aveva esaurito anche questo ultimo conforto della sciagura. Le sue labbra anelavano proferire parola, ma non potevano mandar fuori che urla indistinte. Mi sia permesso il detto, questa era l’ora dell’uracano dell’anima. Commozioni tanto profonde, come ogni altra cosa fuor di natura, lungamente non durano; simili però all’uracano, lasciano dove passano traccie indelebili, e le sembianze affatto tramutate. Quest’uomo, che dapprima poteva paragonarsi ad un morto richiamato per forza di negromanzia ad alcuno ufficio della vita, adesso il vedevi divenuto tutto moto, e tutto velocità. Il volto già così pallido avvampava acceso di colore febbrile: le membra, d’immobili fatte convulse, in diversi atti del continuo agitavansi, benchè non ardisse alzarsi davanti quel teschio che sembrava adorare.
Nè passò molto che quei suoi urli indistinti si accostarono a qualche cosa che parve favella umana: allora se alcuno avesse avuto coraggio di porgere orecchio, ne avrebbe ricavato queste parole:
«Ecco! – Qui stavano quelle labbra che tanto soavemente sorridevano… ora le nude mascelle par che ridano tuttavia… sì… ma del riso del serpente, allorchè delusa la madre degli uomini la intese condannata con tutte le future generazioni alla morte. – Qui i mesti occhi… e pur belli… Qui la bianca fronte, e le floride guance… – Or che rimane di tanta bellezza? Nude ossa… la parte più vaga del corpo in celere dissoluzione si consumò… l’ossa rimangono… l’ossa, come spaventoso testimonio di morte… Oh! per pietà di me… per pietà di te, perchè non fingesti?… L’anima mia geme orrendamente travagliata. Giaccio sopra letto di fuoco, dal quale non posso levarmi, e sul quale, malgrado ogni tormento di questa vita, e la eterna dannazione, tornerei a giacermi… O frutto amaro di vendetta non per anche compíta! – Io non posso più offerire il cielo, che da gran tempo sta chiuso per me; non lo intelletto ormai più che a mezzo perduto… ma io consentirei a sentirmi eternamente trasportato dai venti della terra, percosso dall’onda procellosa contro le roccie del mare, trabalzato per secoli e secoli negli abissi del caos, arso ad ogni istante dal fuoco del cielo, tormentato con tutte le angosce, che mente umana, o infernale, può immaginare, purchè potessi conseguire la intera vendetta… Allo spirito che albergava in questa testa giungeranno funeste tali novelle… Oh! questa è nuova pena, ed a un punto nuovo incitamento per me.»
Mentr’egli così tra sè fantasticava, fu aperto pianamente l’uscio della camera, ed entrò un uomo vestito doviziosamente, il quale, postosi inosservato al fianco del genuflesso, stette senza profferire parola ad ascoltare il discorso che abbiamo esposto qui innanzi.
Dicono i maestri dell’arte, che la esatta descrizione del sembiante e degli abbigliamenti di un personaggio, la qual cosa chiamano prosopografia, valga maravigliosamente a procacciare attenzione al racconto. Noi non sappiamo quanto questo possa esser vero; ma siccome i maestri meritano sempre rispetto, così non esitiamo un momento a descrivere il nuovo personaggio, protestando, che se ad alcuno non andasse a’ versi, voglia attribuirne la colpa ai maestri, che m’insegnarono cotesta figura rettorica.
Il nuovo personaggio dunque, che, come io diceva, entrò tacito, e, per così dire, furtivo, nella stanza dove l’altro si lamentava, poteva essere tre braccia alto; forse meno, che più: di corpo gracile per natura, e fatto maggiormente tale dalla abitudine del vizio. Forse egli non annoverava molti anni, tuttavolta appariva da buon tempo arrivato a quel punto nel quale l’uomo non potendo più sorgere è forza che declini. La sua testa, su la fronte un po’ calva, andava non so se ornata, o deturpata, da radi capelli rossi e distesi, ognuno dei quali pareva sorgere a bello studio in diversa direzione dal suo vicino, offrendo in tutto la immagine di quel capo che un moderno poeta con tanta evidenza di espressione assomigliava
«Ad un campo di biada già matura
Nel cui mezzo passata è la tempesta.»
Nè mai teneva il volto levato quando si trovava al cospetto di altro uomo; solo di tanto in tanto alla sfuggita lo guardava per traverso; e di subito, quasi timoroso che i suoi piccoli occhi grigi non disvelassero i pensieri della sua mente, gli riabbassava. I labbri strettamente chiusi avrebbero detto a chiunque si fosse alcun poco dilettato a considerare le umane sembianze, lui essere uomo tremante che non gli sfuggisse suo malgrado tal parola che potesse condurlo direttamente al capestro. Vero è però che una passione, che egli non sapeva frenare, glieli costringeva talvolta ad allungarsi verso lo orecchie, e le guance a piegarsi in molte minutissime rughe; allora egli sembrava sorridere. Che tutti i Santi del cielo ci salvino da cotesto sorriso! Parlava tardo, ed amaro; e poichè la tranquillità della sua anima era da gran tempo distrutta, godeva d’immenso piacere a distruggere l’altrui. Se in quel punto l’angiolo delle tenebre avesse amato comparire nel mondo con forme a lui convenevoli, certamente non poteva immaginarne più triste di quelle del Conte di Cerra.
Il suo abbigliamento consisteva in sopravvesta di velluto verde doviziosamente ricamata di argento, e foderata di vaio, lunga fino al ginocchio, e dalle parti sotto in fianco divisa; preziosa